Parresìa è la libertà di esprimersi francamente. Per Socrate ed i suoi discendenti fu l’obbligo di dare rappresentazione alla verità: una parola quindi che, nella sua difficile ed inusuale pronuncia, rivela scopertamente ogni obbligo morale nelle diverse sfere del comportamento umano. questa rivista è dunque nell’implicita promessa di questa “pratica” l’asseverazione di una voce sincera nel confronto delle idee, delle opinioni, di analisi e proposte intorno alle politiche dei Beni Culturali; la creazione di un luogo che faccia discutere e riflettere su alcuni aspetti della vasta e complicata conduzione istituzionale i cui argomenti appaiono oggi costretti nelle dispersive sintesi, a volte anche inutili, dei social.
Nella costruzione di un competente “senso critico” non vorremmo tuttavia perdere l’intenzione verso una visione propositiva: la formulazione cioè di opportune correzioni, qualche migliore regolazione di quello stato decisamente degenerato in cui con molta evidenza si ritrova buona parte del patrimonio. Non coltiviamo pertanto l’idea di una “opposizione politica”, ne intendiamo raggruppare una fazione di delusi. Vogliamo piuttosto trattare la questione delle istituzioni secondo un profilo di scienza e di esperienza. Confronti oggi si misurano nel campo delle buone consuetudini istituzionali destinate a presiedere il delicatissimo equilibrio tra le indisponibili esigenze della salvaguardia di contenuto e la corretta e completa fruizione delle opere. Siamo sempre più convinti che bisogna cambiare registro.
Gli ultimi decenni hanno disperso l’identità di una comunità competente con l’ampliamento e la cessione di funzioni strumentali a componenti estranee per formazione e finalità alla disciplina. Queste, sempre più pervasive, sono divenute maggioritarie negli assetti decisionali risultando determinanti nelle scelte degli indirizzi, degli obiettivi e delle modalità del loro conseguimento. Dallo spazio interdisciplinare, collaterale e strumentale, hanno occupato il centro della manovra sostituendosi ai compiti fondativi del sistema. Qui saremo anche più espliciti nell’indicare la pericolosa calata di una lobby vera e propria di “valorizzatori economici” che hanno spostato quel che era stato definito nei compiti sussidiari del nuovo Codice, in una funzione esclusiva, prioritaria e determinante. Alla realizzazione di questo disegno ha concorso la trasformazione della “governance”.
Proveniva dal mondo delle diverse discipline: archeologi, storici dell’arte, archivisti, ecc. furono chiamati alle funzioni di un direttorio insieme a giuristi e amministratori. Già dagli anni ottanta le cose cambiano. L’abbandono del vertice dell’ICR di Giovanni Urbani, la colpevole indifferenza verso le sue proposte, avevano preannunciato, compiuto poi in ogni sua parte, un passaggio epocale. Quelle che si definivano componenti “tecniche” si trovarono secondarie subordinate di un apparato burocratico. L’idea di oggi è il “management aziendale”: trasformare quella istituzione un po’ tradizionalista e domestica del dopoguerra, poi burocratica e impersonale dell’Italia del boom, nella liquida meccanica, svuotata di ogni funzione propositiva, quando non affidata ad un interim eterogeneo, ad una inutile estraniazione. Tale destino contiene già il proprio fallimento nel travisamento della originaria e immutata missione; nella incapacità di gestire gli elevatissimi comuni valori, ancorché già beni, non riducibili al semplice consumo di prodotto. Parole come “brand”, come “produzione”, come “marketing”, come “asset”, ecc. saranno ostracizzate senza rimpianti e ripensamenti dalle nostre pagine. Gli effetti di questa manipolazione linguistica non saranno dunque visibili. Ci proponiamo come taglio editoriale di adoperare piuttosto parole e definizioni coerenti con il lessico delle discipline, rispettando il principio di significante-significato coerente al contenuto oggettivante della materia.
Sarà forse il caso di aprire nuove riflessioni e considerare nella giusta luce il risultato di questi anni. Non vuole dunque essere una rivista contro qualcosa se non la “cattiva politica” ma, deve funzionare come una fonte di riflessione per tutti. Il fatto che voglia perimetrarsi tra le cose “piccole” non vuol dire che sia una “piccola cosa” o che voglia affrontare fatti e problematiche di piccola entità. Il fatto che si presenti come una produzione “domestica” non vuol dire che abbia un corto respiro di provincia e che non sappia parlare ad una grandiosa civiltà che appare sempre più allontanarsi alle nostre spalle dentro anonimi contenitori pubblicitari. Il fatto – infine – che abbia una veste letteraria per quanto mediata dal WEB, non vuol dire che abbia meno contenuto scientifico dei formati standard solitamente trasferiti dalla manualistica tecnologica alla descrizione di una “cultura pratica”. Del resto l’autorevolezza del pensiero se non delle firme che qui già da oggi compaiono ci propone un profilo di esperienza e di conoscenza maturata nei lunghi anni di appartenenza ai vertici di quelle istituzioni, di impegni universitari e di una selettiva professionalità. Mi sento di poter con sicurezza affermare che non arrischiamo insomma in un campo ignoto, ancora tutto da arare e da decifrare. Siamo invece in grado di contribuire alla soluzione di una lunga serie di problematiche con l’autorevolezza di una riflessione fortemente competente nel rigore di una risposta “scientifica” misurata nella specificità di una sintesi.
Piccolo è possibile dunque a fronte del nome altisonante della testata: “Parresìa” che così raccoglie l’invito della Crusca ad allargare il vocabolario corrente dell’italiano medio, avviato fatalmente verso la povertà linguistica; ostaggio dei prestiti di gergalità tecniche oltremodo inespressive. Il significato, per chi lo avesse scordato, è nei principi di una etica immutabile e nel pensiero insuperato; occasione per rinverdirne il senso in un contemporaneo arido, rituale e ripetitivo.
Le vicende di quest’anno saranno presto archiviate con la terribile memoria della loro densità che precede la rinascita. Abbiamo deciso di partire, scaramanticamente dal 2021 lasciandoci così dietro le spalle, consegnandoli alla storia, i momenti di un’avversità incontrastabile che ha messo alla prova decisamente dura anche il mondo della Cultura. Alcune questioni ci hanno impegnato non poco. Le più spinose sono state le normative di sistema quali: le decretazioni di riordino tentate dagli ultimi due ministri Bonisoli e poi Franceschini. L’uno impegnato nella organizzazione di una subspeciem di Azienda; l’altro tornato per la seconda volta a tracciare l’opera di “travestimento” delle mansioni attinenti ai corpi dello Stato in strutture alleggerite dei loro compiti istituzionali, trasformate in autonome identità che spesso mostrano il naturale e prevedibile conflitto tra la complessità dell’oggetto ed una incapiente semplificazione degli strumenti. Molte altre criticità emergono quasi quotidianamente in questo disordinato assetto che si offre all’estemporanea pressione di una società sempre più gonfia di querule postulazioni verso posizioni di privilegio non sempre coincidenti con le occultate necessità. Innumerevoli i disagi e la precoce inattesa entrata in crisi di un sistema di relazioni. Tante le speranze di risveglio. Molte le promesse di auree cascate, scivolano con sinuose discordanze lungo il ventre di una eburnea e molle Danae avvizzita: nebulosa figurazione di questi nostri giorni come mai uguali ad altri, nell’atteso momento di una liberazione.
Nel tempo intercorso, una vasta gamma di fondazioni e concessionari rivendica il diritto di posizione; un risarcimento preteso in nome delle guarentigie e dei privilegi ottenuti così come possono venire. Denari a protezione delle non numerose professionalità occupate che lo Stato potrebbe prendere direttamente in carico senza sconvolgere i parametri della spesa pubblica, ché di grandi profitti si pregiano i risultati nazionali. Il recentissimo rapporto ISTAT sulle statistiche culturali per l’anno 2019, ha censito per i 508 istituti diretti dalle amministrazioni centrali dello Stato, la presenza di circa 4.500 occupati esterni. Per gli istituti non statali il numero sale a più di 16.000 che si vanno ad aggiungere ai circa 11.000 impiantati stabilmente. Se da un lato ci si deve ovviamente augurare la fine di questa sofferente pestilenza, dall’altro l’auspicio che la nuova alba sorga nella medesima precipitante civiltà, non può che destare immagini detergenti come la scopa di don Abbondio; confidenzialmente invocata senza l’abbominio distorto di quella secentesca folla di appestati. Si può forse tornare indietro? Attraverso quali percorsi? È questa una opzione realistica e non semplicemente velleitaria? Si può immaginare un destino migliore? Si, forse. Poco prima che giungessimo a questa infernale fatalità già la Banca d’Italia aveva fotografato la situazione al 2019. Gli analizzatori premettevano alla valutazione una precisa considerazione riguardo alle finalità verso cui dovrebbe camminare il sistema dei musei italiani. Oltre a generare l’attesa ricchezza proveniente dal mercato del turismo culturale, quello cioè che si muove verso siti e luoghi designati dall’attrattiva di cultura, sarebbe infatti importante favorire – anche per gli stessi termini economici – un “accrescimento della qualità del capitale umano”. Il punto debolissimo in cui si trova l’attuale sistema è precisamente stigmatizzato in questo assioma. Non riguarda semplicemente la pur trasparente questione della “pervasività turistica”. La cura del capitale umano rappresenta infatti l’occasione, in questo stesso sistema di relazioni, di una stabile crescita collettiva e sociale non misurabile peraltro con l’ormai adusto strumento delle quote reddituali. La questione attiene al sistema delle interazioni con il Territorio ed alla ricomparsa di meccanismi dissociativi, di abbandono sociale, di spontaneismo incontrollato, decadendo ogni forma di valore “comunitario”.
Tra le molte esigenze occorrenti nel fronteggiare questa crisi sembrano doversi dunque assumere considerevoli determinazioni verso il grande numero delle persone che rimangono tagliate fuori dalla Cultura. Margini geografici che riguardano non solo le più abbandonate provincie di una oblunga penisola ma, anche grosse conurbazioni ed aree metropolitane. Città e quartieri storici si sono desolati. L’occasione è in mano alle nuove generazioni. Il ruolo che queste devono assumere dipende da una nuova “fisionomia dello spazio pubblico” che torni a riconsiderare la posizione ordinativa delle funzioni dello Stato al di sopra dei frantumi di un potere sclerotico che muove, ancora una volta, dietro le quinte, le comparse istituzionali. L’attualizzazione dell’esistenza è in mano a questo “coraggio della verità”, alle relazioni del sapere col potere. È l’assunto che Michel Foucault dalle ultime affollatissime lezioni del Collège de France dedica, nella lucida analisi dello stato presente, alla rimessa in gioco della parresìa.
Un mucchio di giovani, sono stati chiamati a lavorare a vario titolo nel mondo dei Beni Culturali e della Cultura. Tantissimi di questi nuovi laureati, creati dall’eccessiva inventiva del sistema cattedratico, stentano però a collocarsi in una stabile identità professionale che si consuma oggi nella difficoltosa ricerca del riconoscimento. Mischiati spesso tra le indeterminate mansioni di un’attività traballante, gravitano ai confini vastissimi del Ministero. La loro autenticazione passa da concessionari, fondazioni, società statali che mantengono posizioni di privilegio oltre ogni loro speranza; compensano l’operato con una nuova forma di salariato “proletario” le cui rendite sfuggono al tradizionale sistema di fabbrica e attraverso una perversa rete di mansioni che hanno come materiale della produzione i beni comuni. Si sono inizialmente appropriati della sostanza immateriale di quei beni finendo per possederne un completo destino; la loro gestione riguarda adesso un grosso apparato di “società civile” estraneo allo Stato. Si è reso abile ad occupare un mercato saltandone le regole e facendo diritto dei privilegi accordati senza essere passato da alcun riconoscimento che non fosse una “relazione di potere”. Per molti di questi soggetti le norme si sono costruite quando non evase; ampie parti dei bilanci pubblici sono state appositamente allocate. In taluni casi è lo Stato stesso a farsi ente privato, partecipando alla legittimazione ed al perfezionamento del sistema.
Al raggiungimento dei fini istituzionali che la Repubblica ha affidato al Ministero per i Beni e le Attività culturali concorre infatti, tra i vari apparati da esso dipendenti ed a questo riconducibili, anche: “ALES – ARTE LAVORO E SERVIZI S.p.A.”: una società privata della più pubblica delle istituzioni quale può essere un Ministero: funambolica ambiguità che i tempi moderni consentono come forma etero-morale di un’appropriazione delle nostre più preziose risorse collettive. Nata alla fine degli anni novanta come SIBEC, diventerà più tardi ARCUS e poi ALES. Le norme statutarie ritagliano tra i compiti assegnati, tutti quelli spettanti al ministero; un ministero “parallelo” dove, diversamente da quello nel quale corre l’obbligo di trasparenti procedimenti pubblici nella chiamata ai concorsi, qui invece è possibile una molto discreta selezione al riparo delle imparzialità. Suo compito è trovare, nelle ridotte mansioni ormai dissipate nelle elementari e generiche funzioni, “personale adeguato”! poiché ormai limitati sono gli scopi che il ministero si è attribuito nei compiti esorbitanti tali da valere quasi come esclusivi dell’accoglienza turistica. Nessuno è in grado di conoscerne il numero.
Nei data dell’indagine ISTAT essi compaiono nell’ambigua posizione degli occupati direttamente dallo Stato, però come risvolto dell’attuale crisi, pochi giorni prima del Natale 2020, ALES ha licenziato 90 addetti (La Repubblica Roma, 24.12.2020, pag. 7): “(…) siamo spiacenti di comunicarle la cessazione del rapporto a tempo determinato alla scadenza contrattuale prevista (…)”. I suoi dirigenti sono divenuti spregiudicati Cont Killer dei musei nazionali; come lo Stato non avrebbe mai potuto fare. Ma tanto c’è chi sostiene che il settore è in grado di produrre miliardate di denari, risorse che in mano a finanzieri e broker sarebbero in grado di moltiplicare ricchezze insondabili a dispetto di vagabondi archeologi, di bibliotecari annoiati, di archivisti in pantofole, dei noiosi blateratori d’arte, di ambigui e bugiardi restauratori per non parlare della repressione architettonica. ALES per questi sembrerà una specie di arcigno sfruttatore delle commedie di Dickens, un Mr. Fagin di Oliver Twist che trae le gelose risorse di una viziosa esistenza nell’ignobile sfruttamento delle giovani dirompenze creative fottendosi ogni loro speranza.
Lo Stato è il manovratore occulto di questi incerti destini di cui nessuno si prende la briga di dimostrarne una vera etica convenienza. Come il Billy Budd di Melville si troveranno loro malgrado traghettati nel corso di una placida giornata portuale, dalla civica vita sulla Diritti dell’uomo, suggestivo nome del cargo dove alberga il valore del rispetto umano, ai settantacinque cannoni dell’Indomita: a remare dietro le disperse rotte delle continue trasformazioni di un’ossessiva balena bianca che notoriamente, come uno spettro invisibile, si muove tra le gramaglie di un decadente parlamento.
Queste ineccepibili ragioni polemiche non possono allontanarci dal dispiaciuto dovere del felice ricordo di amici che non ci sono più. Ci siamo spesso ritrovati in compagnia di compagni leali e sinceri come Sandra Pinto e Philippe Daverio: due persone diverse unite dalla viscerale passione per l’arte che mancano già alla ricerca di giuste risposte ai moltissimi dubbi che ci arrovellano.
L’una la ricorderemo tutti nell’appassionata “ricomposizione” della ricchissima collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Il raffinato e incomparabile pregio nel tirare fuori dall’oblio dei depositi un Ottocento completo senza il quale non ci sarebbero state ragioni al nostro tempo. Non si negò agli obblighi ed al piacere istituzionale di sussistere nelle migliaia di opere custodite ed esposte dunque – come comanda la buona pratica della fruizione – nella larghezza e completezza della collezione. Mai la praticò come una cosa propria o come fosse semplicemente una galleria mercantile. Grazie per il gran numero delle emozioni, anche personali, che ha saputo scatenare con irripetuta provocazione culturale.
L’altro lo ricorderemo nel fascino della sua infallibile allocuzione, figlia di molte radici esistenziali e di esperienze preziose che nella disinvolta passione per la narrazione e la comunicazione, senza tempo e confini, lo videro paladino di una repubblicana idea internazionale della Cultura: dal gelo dei confini artici alle infuocate polveri del Magreb. A sua memoria abbiamo qui ritagliato alcune immagini tratte dal taccuino di disegni di Giuseppe Nodari, artista al seguito dell’impresa dei Mille che fu edita, come preziosissima scoperta di Philippe Daverio, da Rizzoli nel 2010. Immagini che nel sanguigno dominare delle camice ci riportano allo stile di un “elegantone” incoercibile quale lui stesso volle farsi nella quotidiana rappresentazione di questo palcoscenico.
A loro e ad altri come loro è dedicato questo nostro “piccolo” frammento di verità.
Michele Campisi