In qualsiasi città o aggregato urbano i monumenti, i musei, i luoghi della memoria costituiscono per il comune cittadino i capisaldi di riferimento di una maglia urbana. Tale regola ordinatrice è andata persa con l’espandersi delle periferie nate in assenza di un lungimirante progetto urbanistico, fuori da ogni pianificazione urbana o frutto di miopi accordi e indicibili contropartite affaristiche tra politica ed imprenditoria. Non a caso Renzo Piano parla spesso della necessità di “rammendare” la maglia urbana, recuperare la connessione, oggi inesistente, tra periferie e città storica.
In una lucida recensione del 12 marzo 1972 di una monografia dedicata al Colosseo titolata “Da Simbolo divino a spartitraffico” l’indimenticato storico Bruno Zevi evidenzia che “Il fenomeno che Levi-Strauss denomina “fissione semantica” trova nella città la sua migliore verifica, poiché si tratta di un’opera d’arte pronta a caricarsi di significati sempre diversi. Lo afferma Giulio Carlo Argan con la consueta chiarezza: “Il contesto spazio-temporale della città non è meno unitario per il fatto che le sue componenti non sono simultanee, non si bloccano in un unico effetto prospettico, non sono il prodotto di una sola personalità di artista. Lo spazio ed il tempo della storia formano, insieme, un’ideologia la cui forma visibile è la forma della città nel suo divenire. E s’intende che ogni atto o momento di questo divenire implica un riesame e un giudizio dei dati del passato, e cioè un’attribuzione di una citazione o magari una revoca del valore, a cui corrispondono i diversi tipi di intervento: la conservazione, il restauro, il rinnovamento o, nei periodi di bassa cultura storica, la degradazione e la distruzione. La storia della città, infine, non è altro che una storia dell’arte periodizzata sui tempi lunghi invece che, come comunemente si fa, sui tempi brevi dell’operosità di un artista o di una scuola, di un pontificato o di un regno”. Ciò vale-riprende Zevi- anche per i singoli episodi urbani, piazze strade e quartieri, e per i monumenti: mutano di ruolo acquisendo funzioni e veicolando messaggi spesso remoti da quelli originari. Caso sintomatico: il Colosseo…
Il progressivo cambiamento socio-culturale di aree urbane centrali, la trasformazione di quartieri popolari in zone abitative di pregio ha avuto non pochi effetti anche sulla città storica, emersi con particolare evidenza in occasione del recente lockdown causato dalla pandemia. Il centro storico di Roma, privato nel tempo di botteghe artigiane e negozi di vicinato, svuotato dai residenti per il sempre maggiore numero di abitazioni e conventi convertiti in profittevoli bed & breakfast, case vacanze, hotel, bistrots, tavole calde, gelaterie e pizzerie è apparso spettrale durante il lungo lockdown, seppure labilmente restituito alla sua straordinaria bellezza. Il centro ed i principali monumenti e luoghi di aggregazione liberati delle orde di turisti hanno peraltro messo in luce l’avanzato consumo materico della Città, coperto in tempi “normali” dal traffico e dalla compattezza della folla che impone ben altre attenzioni per salvaguardare l’incolumità delle persone; una Città in alcuni ambiti monumentali consumata che impone una presa di coscienza, urgenti risposte, adeguati provvedimenti di tutela ed investimenti.
Se per assunto condiviso sino al tramonto del secolo scorso l’obbiettivo primario, riassunto nell’articolo 9 della nostra Costituzione, consisteva nella conservazione delle memorie storiche affidate alla tutela diretta o indiretta delle Soprintendenze, progressivamente , a partire dall’infelice assimilazione del nostro patrimonio storico-artistico ai “giacimenti petroliferi”, si è andata affermando la prioritaria necessità della valorizzazione economica dei beni, sino alle recenti dirompenti riforme dell’assetto organizzativo del principale soggetto istituzionale preposto alla tutela, il Mibact. Il cuore della riforma, attuata in progress con certosina e democristiana perseveranza, è contenuta nell’autonomia gestionale dei musei e dei maggiori siti attrattivi e nel distacco dei musei “minori” e dei monumenti, piccoli e grandi, dalle soprintendenze, ridotte al lumicino in sedi, organici e mezzi, tanto per avvallare la cattiva nomea, diffusa ad arte, di frenatrici dello sviluppo e della diffusione popolare della cultura. Con l’unica stella cometa se non quella di incrementare gli introiti delle biglietterie, per un importo peraltro poco significativo sul PIL del Paese, ed in totale dispregio delle competenze tecniche, si sono ben presto mischiati cavoli e patate , cooptando per le direzione dei nuovi musei e siti autonomi personalità esterne al dicastero ed estranee ai contenuti valoriali trasmessi dai beni (ad esempio storici dell’arte contemporanea scelti per gestire siti archeologici o architettonici di antico lignaggio e più recentemente gemellare monumenti di assai diversa storia e caratteristiche come nel caso dell’Altare della Patria o Vittoriano ed il Museo di Arti Applicate, o più correttamente, essendo presenti nell’edificio svariate attività: il compendio di Palazzo Venezia.
Il Vittoriano e Palazzo Venezia, uniti sotto una medesima direzione, costituiscono uno dei recenti musei dotati di autonomia speciale, costituito con l’ultimo decreto ( DPCM n.169 del 2 dicembre 2019) voluto dal ministro Franceschini, nell’ambito della sua riforma del MiBACT, iniziata nel 2014 e protrattasi nel tempo con una bulimica sequenza di decreti, finalizzati alla “valorizzazione” dei beni culturali statali. Due monumenti dai caratteri ben distinti ed opposti: Il Vittoriano, eretto tra il 1885 ed il 1915 su progetto di Giuseppe Sacconi, a memoria del Re Vittorio Emanuele II, il Padre della Patria, ed il Palazzo Venezia, costruito tra il 1455 ed il 1471 su commissione del cardinale Pietro Barbo, veneziano, assunto al soglio di Pietro con il nome di Paolo II, divenuto in seguito (1564) ambasciata della repubblica di Venezia, dal 1797 proprietà degli austriaci e dal 1867 sede dell’ambasciata dell’Impero austro-ungarico presso la Santa Sede, è stato espropriato dallo Stato Italiano nel 1916 come rappresaglia bellica; nel 1929 Benito Mussolini lo utilizzò quale sede del governo, oggi vi hanno sito uffici del ministero e numerose attività culturali, tra le quali il Museo Nazionale e la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte.

Prima di passare alla disamina dei possibili obiettivi ed esiti di questa strana creatura occorrerà ripercorrere brevemente la storia e le vicissitudini dei due monumenti, ubicati nel cuore di Roma e alle pendici del Colle del Campidoglio.
Il Vittoriano, per volontà dell’allora Presidente del Consiglio Depetris fu collocato a forza, contro la volontà della Municipalità ed in variante al nascituro piano regolatore del 1883, nel cuore topografico e politico di Roma, sulla collina del Campidoglio, comportando la demolizione dell’antico abitato. Depretis stesso, alla presidenza della Commissione Reale istituita per la scelta del progetto, in occasione del secondo e decisivo concorso del 1883, prefigura l’aspetto del monumento al Re che doveva prevedere una statua equestre ed un fondale architettonico in asse con la via del Corso. Un distruttivo meteorite, per tipologia e dimensioni estraneo al contesto, ispirato all’Altare di Pergamo ma benignamente assimilato dalla fantasia popolare ad una “macchina da scrivere”, che ha posto le basi per i successivi sventramenti e realizzazione della mussoliniana via dell’Impero. Tra i pochi politici che si opposero al progetto il deputato Ruggiero Bonghi che vanamente rivolse una interrogazione parlamentare al Depretis invitando a “non confondere glorie nuove con glorie antiche che non sono più nostre; non sostituire la cultura nostra e quella dei tempi antichi (…) qui non si tratta solamente della distruzione necessaria dei monumenti antichi che si possono scoprire, ma si tratta della distruzione dei monumenti antichi già scoperti (…)”.
IL Vittoriano, pensato quindi per commemorare il Re, aggiungerà un nuovo significato nel 1925, con la traslazione nel sacello del monumento del corpo del Milite Ignoto, a commemorazione di tutti i caduti nella Guerra del 1915-18 e più tardi con la collocazione e apertura al pubblico, nel 1970, del Museo centrale del Risorgimento nell’ala posta in continuità del fianco sinistro del Vittoriano, terminata nel 1935 su progetto di Armando Brasini. In tempi recenti alcune sale del Museo sono state utilizzate per mostre di artisti moderni o contemporanei (Monet, Hopper, Mucha, Boldrini, Warhol, Pollock tra i maggiori) organizzate dal concessionario Arthemisia Group Srl. Mostre-evento è utile sottolinearlo trainate dall’altisonanza degli artisti esposti, spesso rappresentati con poche opere di appeal, con un costo dei biglietti sproporzionato rispetto ai pochi contenuti.
Sulle vicende che hanno interessato il Vittoriano altare della Patria con annesso Sacrario del Milite Ignoto vorrei solo sottolineare l’improprio sovrapporsi di attività certamente non congruenti ai valori simbolici del monumento e spesso confliggenti; atmosfera molto diversa si respira a confronto, per analogia di valori patri custoditi e rappresentati, nel complesso de Les Invalides a Parigi dov’è la Tomba di Napoleone, il Musée de l’Arme ed il Musée des Plans-Relifs.
Mi astengo, in questa sede dal riepilogare le vicende architettoniche ed urbanistiche sia del Palazzo Venezia che della piazza, sulle quale esiste una vasta bibliografia, peraltro correttamente e chiaramente riassunte anche nelle schede di Wikipedia. Voglio solo sottolineare a proposito della piazza che proprio come diretta conseguenza della scelta , carica di significati simbolici, di costruire sulla collina del Campidoglio il monumento al Re Vittorio e dei successivi progetti mussoliniani dell’apertura di Via dell’Impero (oggi via dei Fori Imperiali) sulla piazza convergono cinque strade importanti: la Via del Teatro Marcello che prosegue nella via Petroselli -Circo Massimo-Passeggiata Archeologica- via Cristoforo Colombo EUR -via del Mare; la via dei Fori Imperiali che conduce al Colosseo e si innerva al Rione Celio-San Giovanni e settore Est della Città; via del Corso che prosegue a Nord con la via Flaminia; la direttrice via Cesare Battisti-via quattro Novembre- via Nazionale-Piazza Esedra-Stazione Termini; la direttrice via del Plebiscito-corso Vittorio Emanuele II- lungo Tevere – ponte Vittorio Emanuele II – Vaticano- Quartiere Prati. Di fatto la piazza costituisce l’ombelico della Città, servita da molte linee di trasporto pubblico e caotica convergenza di percorsi meccanizzati, impossibile da regolare con impianti semaforici, tanto da caratterizzarsi più che dall’eccezionale contesto monumentale, per la pedana sopraelevata del vigile, monocratico arbitro del traffico, e per il famoso balcone del Duce, divenuto nel dopoguerra per i romani punto di riferimento per darsi appuntamenti.

Uno strano binomio l’unione tra il Vittoriano e il Palazzo Venezia, al quale viene riconosciuto tra i musei autonomi il ruolo di prima fascia, a riprova delle forti ambizioni di partenza. Difficile prevedere il suo successo- ovviamente misurato come d’uso sempre e solo in termini di biglietterie e bookshop – in una Città che vede tra i top più visitati: il Pantheon, il Colosseo ed il Foro, i Musei Vaticani, i Musei Capitolini e nettamente distanziati siti attrattivi come la Galleria Borghese, Castel Sant’Angelo, il Circuito del Museo Nazionale Romano, Il Museo di Palazzo Barberini, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, tanto per citare i più noti, e soprattutto in prima fila una Città-museo forse ineguagliabile. A meno di portare il soggiorno medio nella Capitale ad oltrepassare la settimana (!) sarà arduo oltrepassare le attuali cifre prodotte dall’accesso al Belvedere realizzato, con non poche polemiche, sui terrazzi del Vittoriano. Tra le prime dichiarazioni della neonominata direttrice Edith Gabrielli, già direttrice del Polo regionale dei Musei con sede all’interno di Palazzo Venezia si pensa ad un collegamento ipogeo con i sotterranei del Vittoriano e con la futura stazione della metropolitana della linea C; più che un collegamento una osmosi con la metropolitana, un prolungamento del museo all’interno della stazione. Ci auguriamo che le collezioni del museo, in primis la collezione d’Armi antiche Odescalchi, periodicamente riportate alla luce dai depositi, non venga scambiata dai turisti per una vetrina dello shopping romano. E’ più che prevedibile che i numeri delle biglietterie seguiranno i flussi turistici e rimarranno quelli per l’accesso al belvedere del Vittoriano. Proprio il collegamento con la metropolitana e la centralità del sito avrebbero oltremodo suggerito di rafforzare il ruolo di cuore identitario e di aggregazione sociale e culturale per la Città, coerente con quel ruolo di centro studi per tanti anni ricoperto dalla Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte aperta nel 1922 in occasione della fondazione dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte voluto da Benedetto Croce e presieduto da Corrado Ricci.

Nel tempo la biblioteca ha acquisito importanti fondi e collezioni tra i quali ricordiamo per tutti la libreria personale e la prestigiosa collezione di Rodolfo Lanciani, da divenire la maggiore biblioteca italiana d’arte e di archeologia, strumento di formazione per tanti universitari (archeologi, architetti, storici dell’arte…) e studiosi, in parte confluiti nei ranghi del ministero. La biblioteca ha fin ora ricoperto il ruolo di unico avamposto civico della città, attraverso studenti e studiosi, nei confronti dell’occupazione turistica. Nei programmi di valorizzazione culturale invece di ampliare e di riorganizzare la biblioteca (oggi in parte distaccata per carenza di spazi presso la Sala della Crociera della vicina sede del Mibact) e di farne il perno di un progetto di Luogo della Ricerca si è deciso di trasferirla in un palazzo offerto dalla Presidenza della Repubblica, precedentemente adibito ad abitazioni di funzionari, posto nell’irta salita di via della Dataria in una non felice ubicazione topografica, privo di agevoli collegamenti pubblici. Ci auguriamo che il tempo porti consigli ed il palazzo, per recuperare avventori, non diventi luogo di catering ed eventi pseudoculturali da “rotocalco” che hanno poco a che vedere con la cultura.
Le riforme sono state abili strumenti di distrazione di massa.
Nell’accettare di partecipare con un contributo sul nascente museo del Vittoriano congiunto sotto un’unica direzione autonoma al Museo per le arti applicate di Palazzo Venezia o più esattamente all’insieme di tutti gli istituti e le attività presenti all’interno del Palazzo Venezia mi è venuto spontaneo allargare la visione sulle recenti travagliate vicende del Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo guidato ormai da quattro anni da Dario Franceschini salvo il breve intermezzo del ministro Bonisoli espressione del governo giallo-verde Conte I.
La prima fonte di preoccupazione è l’avere recuperato da ultimo nell’ambito delle competenze del ministero il turismo, che seppure declinabile come culturale, è pur sempre un’attività economica che, dato il peso sul Pil italiano, meriterebbe forse un ministero dedicato, o confluire in un ministero economico e non in quello che dovrebbe occuparsi della tutela e conservazione del patrimonio culturale della nazione e del paesaggio. Fissarne lì le regole e tracciare le linee guida alle quali si dovrebbero conformare gli altri livelli istituzionali di guida del paese. Questa scelta “già la dice lunga”. Entrando nel merito delle recenti riforme, spacciate per riorganizzazioni del ministero, caratterizzate fondamentalmente da un’unica direttrice, ovvero l’autonomia di molti musei, aree archeologiche e compendi monumentali, sottratte alla gestione delle soprintendenze, e l’istituzione di Poli museali regionali, ribattezzati con gli ultimi provvedimenti: Direzioni regionali. In queste si sono fatte confluire alla rinfusa i residui musei, aree archeologiche, compendi monumentali, biblioteche. Processo di riordino che ha riguardato il parallelo depontenziamento, in numero di sedi e logistica, delle soprintendenze (articolate, precedentemente alle riforme, per settori scientifici in soprintendenze : per i beni archeologici, per i beni architettonici e paesaggistici, per i beni storici ed artistici, per i beni archivistici …), accorpate oggi in soprintendenze uniche pomposamente definite “olistiche” per ricavare posti, ad invarianza di costi e risorse dirigenziali, in favore dei nuovi super-direttori reclutati in gran numero all’esterno, con concorsi ingannevoli, pubblicizzati come “internazionali” ma, spesso con scarsa attinenza scientifica ai beni ed ai musei da dirigere, salvo vaghe precedenti performance manageriali. Unico assillante obiettivo, continuamente rimbalzato sui media nazionali, la “valorizzazione“ economica dei beni misurata sull’incremento dei visitatori e degli incassi delle biglietterie, trainato più che dalle riforme, dalla crescita esponenziale del turismo di massa. Tutto il sistema è franato improvvisamente e imprevedibilmente con la venuta del COVID che ha messo a nudo la pochezza del progetto; in particolare l’assenza di una prospettiva civica di crescita culturale.
Gli stessi obiettivi della riforma potevano essere attuati nell’ambito delle soprintendenze liberandole dai molti legacci burocratici e dando loro quell’autonomia gestionale oggi accordata ai “super-direttori” dei musei. Basti ricordare che prima della riforma se un soprintendente intendeva concedere in occasione di un determinato evento l’ingresso gratuito doveva farne richiesta con largo anticipo alla direzione regionale, per essere portato all’ordine del giorno e discusso in tale sede con gli altri soprintendenti, ed il direttore regionale doveva emettere un decreto che doveva essere vagliato e bollinato dalla Corte dei Conti regionale. Probabilmente tale semplice possibilità a costo zero non è stata neanche presa in considerazione per preconcetti giudizi negativi sui soprintendenti censurati come “i signori del no” (la riforma per dichiarato input dell’allora Presidente del Consiglio Renzi è iniziata contro i soprintendenti, tacciati di oscurantismo e detentori di un anacronistico potere monocratico d’interdizione), frutto non secondariamente di scarsa o nessuna conoscenza dei procedimenti amministrativi della pubblica amministrazione (tutto l’iter di riforme è stato concepito nelle segrete stanze del ministero dal professore Lorenzo Casini, docente universitario presso la Scuola IMT Alti Studi di Lucca ed attuale segretario generale del Ministero , senza nessun confronto con i soprintendenti ed i vertici tecnico- amministrativi del ministero e senza il supporto di esperti esterni.
L’indebolimento del significato di “museo statale” rafforzerà nel tempo quelle spinte autonomiste di Regioni del Nord, momentaneamente sopite per l’emergenza sanitaria, dimentiche che in passato sull’imperativo politico e sociale di creare dei musei nazionali con una adeguata rappresentanza di opere per ogni periodo storico hanno di fatto spogliato alcune aree del Paese, in particolare le regioni centrali, decontestualizzando nei casi più gravi le opere (tipico esempio le pale d’altare) dal loro contesto storico e architettonico. È a tutti noto che la galleria di Brera non è altro che l’eredità del Museo nazionale Cisalpino istituito in epoca napoleonica e contiene numerosissime opere umbro-marchigiane.
Il dettato dell’articola 9 della Costituzione “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” sembra un principio sorpassato e ulteriori preoccupanti avvisaglie non lasciano presagire nulla di buono. La trasformazione in fondazione della Scuola dei beni e delle attività culturali istituita nell’ambito delle riforme Franceschini esemplifica il pensiero del ministro, che, ormai seduto da lungo tempo al Collegio Romano, considera cosa propria il patrimonio culturale del Paese. Il recente aggiornamento del sito web del ministero nella pagina dedicata ai musei e luoghi dotati di autonomia speciale riporta, in alto a sinistra delle rispettive caselle, l’enigmatica dicitura ENTE accanto al fronte stilizzato di un tempietto. Che il nostro ministro monocratico voglia trasformare in altrettante Fondazioni tutti i musei statali? O di dare in consegna a Fondazioni private i siti più attrattivi del nostro patrimonio culturale come il Colosseo, gli Uffizi, il parco archeologico di Pompei accentuando sempre di più il divario il centro e la periferia, tra i musei di serie A e di serie B? La cultura non si misura in base alla redditività del botteghino. Preoccupa la perdurante assenza di quelle istituzioni che dovrebbero essere i principali custodi della Costituzione.
Le riforme “olistiche”
Un’ultima considerazione si può fare su alcuni aspetti della riforma Franceschini le cui trasformazioni propagandate, a detta dell’allora presidente del Consiglio Superiore del ministero, Giuliano Volpe, come portatrici di una visione “olistica” grazie alla separazione della tutela dalla valorizzazione, tradotto operativamente nell’autonomia gestionale dei musei e degli altri compendi monumentali ed aree archeologiche dall’amministrazione delle soprintendenze ha conseguito un effetto opposto. Alla luce delle evidenze ha determinato un inaridimento della ricerca, interrompendo quel filo ideale che iniziava dalla tutela del territorio, proseguiva con la ricerca e spesso trovava la sua logica conclusione nei cantieri e nelle mostre, intese non solo come inermi esposizioni di capolavori ma quale occasione di accrescimento e divulgazione delle conoscenze intorno ad un determinato tema, sia esso un artista, una scuola, un determinato periodo storico ecc. Le mostre da momento conclusivo della conoscenza sono diventate in poco tempo operazioni economiche dove il filo conduttore non è assicurato dai curatori scientifici (siano essi storici dell’arte, architetti od archeologici ed esperti del tema) bensì dagli organizzatori e “main sponsor”. I musei, separati dalle soprintendenze, e pressati dall’imperativo mediatico di produrre eventi e numeri, ossia botteghini vincenti, hanno finito per ricercare operazioni e performance di facciata che non hanno nulla in comunione con la cultura. Ben presto i direttori dei musei pressati dall’esigenza di visibilità mediatica ed estranei ai principi dell’amministrazione pubblica, hanno dimenticato la responsabilità di essere custodi pro-tempore di un patrimonio culturale collettivo e scavallato l’unico limite che la riforma gli impone nel caso di interventi permanenti sugli immobili storici ovvero quello di rapportarsi ai responsabili della tutela delle soprintendenze.
Nel fronte opposto, quello delle soprintendenze di settore, accorpate sotto un’unica guida, sono stati esaltati gli aspetti burocratici amministrativi di controllo ex post degli interventi a discapito di quelli tecnico-scientifici, di verifica e di attuazione diretta sul campo, sopprimendo la primaria ed elementare necessità che a capo di un ufficio che si occupa di beni archeologici ci sia un archeologo, come di un architetto per i beni architettonici , di uno storico dell’arte per i beni storici artistici. In poche parole è stato perseguito deliberatamente l’azzeramento delle competenze. Salvo sempre più sporadici casi di eroici e appassionati soprintendenti e funzionari, si sta perdendo lo stretto legame tra tutela e ricerca che ha caratterizzato la lunga e prestigiosa storia delle soprintendenze, trasformandole in indeboliti e decontestualizzati uffici addetti al rilascio di pareri, autorizzazioni, prescrizioni e dinieghi, spesso contradetti dal ministro e dagli organi centrali del ministero.
In ultima analisi dalla riforma ne è uscito penalizzato il territorio con la rete di medi e piccoli musei e la tutela attiva dei monumenti stessi. Per esperienza diretta posso affermare che il soprintendente rispetto all’isolato direttore del museo usufruisce di una visione a 360 gradi del territorio, ha continui contatti con le autorità locali e con la collettività; confronto che è connaturato al suo ruolo di autorità istituzionale e di riferimento, deputata alla tutela e conservazione dei beni culturali e del paesaggio.
Sulla tutela del paesaggio e dell’edificato storico
Della riforma e dei suoi limiti è dato abbondante resoconto nei contributi di questa rivista. Quindi non mi dilungo oltre sulle riforme Franceschini concernenti l’autonomia dei musei. Ci sarà tuttavia da aggiungere una riflessione sull’attività di un ministro della Cultura che ha avuto l’opportunità e l’onere di essere alla guida del dicastero per quattro anni, e mettere a fuoco quello che non ha fatto e non sta facendo su almeno due questioni emergenziali che sono da più tempo nell’agenda dei nostri politici: la continua deregulation in materia edilizia, in particolare i “piani casa” regionali e la “rigenerazione urbana”, che espongono al rischio di demolizione e ricostruzione -con premio di cubatura- edifici storici (ancorché non sottoposti a vincolo) presenti nelle zone pregiate delle città; gli impegni nazionali, assunti da qui al 2030 nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima 1 a cura del Mise, per l’incremento delle fonti di energia rinnovabili- tradotto in spianate di campi fotovoltaici sottratti alle campagne e di impianti eolici posti sulle nostre alture – che stanno avendo e avranno forti ripercussioni sulle città e borghi antichi e sul paesaggio.
Accedendo al link www.mise.gov.it oltre al testo integrale del Piano, troviamo le seguenti informazioni: “Il Ministero dello Sviluppo Economico ha pubblicato il testo Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima, predisposto con il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, che recepisce le novità contenute nel Decreto Legge sul Clima nonché quelle sugli investimenti per il Green New Deal previste nella Legge di Bilancio 2020.
Il PNIEC è stato inviato alla Commissione europea in attuazione del Regolamento (UE) 2018/1999, completando così il percorso avviato nel dicembre 2018, nel corso del quale il Piano è stato oggetto di un proficuo confronto tra le istituzioni coinvolte, i cittadini e tutti gli stakeholder.
Con il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima vengono stabiliti gli obiettivi nazionali al 2030 sull’efficienza energetica, sulle fonti rinnovabili e sulla riduzione delle emissioni di CO2, nonché gli obiettivi in tema di sicurezza energetica, interconnessioni, mercato unico dell’energia e competitività, sviluppo e mobilità sostenibile, delineando per ciascuno di essi le misure che saranno attuate per assicurarne il raggiungimento.
L’obiettivo dell’Italia – dichiara il Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli – “è quello di contribuire in maniera decisiva alla realizzazione di un importante cambiamento nella politica energetica e ambientale dell’Unione europea, attraverso l’individuazione di misure condivise che siano in grado di accompagnare anche la transizione in atto nel mondo produttivo verso il Green New Deal”.
L’attuazione del Piano sarà assicurata dai decreti legislativi di recepimento delle direttive europee in materia di efficienza energetica, di fonti rinnovabili e di mercati dell’elettricità e del gas, che saranno emanati nel corso del 2020.
Iniziando dal Piano Nazionale per l’Energia ed il Clima, dalle scarne indicazioni sul web, sorprende che tra le amministrazioni coinvolte nella sua elaborazione, manchi il responsabile politico preposto alla tutela del paesaggio, non solo in quanto inalienabile patrimonio culturale ed identitario della nazione ma come scenario di una delle più importanti attività e fonti di reddito dei suoi cittadini, quella turistica, variamente declinata: dalle visite culturali e paesaggistiche, al contatto con la “natura”, alle città d’arte, ai soggiorni termali, marini e montani ecc.
Nel piano italiano è previsto al 2030 il boom delle fonti di energia rinnovabile, principalmente eolico e fotovoltaico. Nel settore elettrico è dunque prevista una eccezionale accelerazione allo sviluppo dell’eolico e del fotovoltaico, con un programma di installazione annua media, nel corso del decennio pari, rispettivamente, a circa 3.200 e 3.800 MW. Si consideri che negli ultimi anni l’installato medio si è fermato a circa 700 MW annui. Le fonti di energia rinnovabili dovranno arrivare a coprire il 55,4% della generazione elettrica contro il 34% di oggi. Visto che eolico significa installazione di pale eoliche e per il fotovoltaico installazioni di immense estese di pannelli proviamo a fare due conti. 3.800 MW corrispondono a 3.800.000 chilowatt e per produrre un chilowatt occorre una superfice media di 10 mq, otteniamo 38 milioni mq di superfice di pannelli da incrementare di un 20% per i necessari corridoi di servizio, stazioni di trasformazione, ecc per un totale di 45,6 milioni di mq pari a 4.560 ettari equivalenti a 45,6 chilometri quadrati annui di superfice sottratta alla campagna e parzialmente o totalmente impermeabilizzata, in ogni caso irreversibilmente recuperabile alla produzione agricola. 456 kmq nell’arco del decennio corrispondono a poco meno dell’estensione del Parco Nazionale d’Abruzzo di 496 kmq.
Per quanto concerne l’eolico fino a qualche tempo fa (ben presto superato con un incremento nelle dimensioni delle pale e delle altezze), la taglia di aerogeneratore più diffusa era compresa tra 600 e 850 KW, con rotore generalmente munito di tre pale con diametro fra i 40 e 55 mt ed un’altezza del mozzo dal terreno di circa 50 mt, ancorati su platee circolari di circa 30-40 metri di diametro. Oggi siamo già ad aerogeneratori con potenza fino a 3MW, diametro delle eliche fino a 101 metri e altezza del mozzo fino a 99 metri. Per tali impianti è previsto un plinto troncoconico di fondazione circolare in cemento armato di 20 mt di diametro e di circa 3 metri di spessore ancorato al terreno con 18 pali del diametro di un metro e profondità pari a 25 mt, posti su un raggio di 8 mt dal centro della torre. Con l’aumento delle potenze non ci siamo quindi allargati ma abbiamo preferito andare in profondità, sta di fatto che per produrre 3200 MW occorre impiantare circa 1.050 torri l’anno che alla fine dell’intero decennio potranno essere 10.500. La ulteriore cementificazione, badate bene in zone orograficamente delicatissime visto che ci troviamo sempre sulla cresta di monti e colline, sarà di altri 329 mila mq pari a 33 ettari, con un ingombro spaziale almeno da centuplicare.
A questo inconfutabile conteggio, bisognerà aggiungere gli sbancamenti ed i livellamenti, e tutti gli sconquassi necessari per realizzare le strade indispensabili per trasportare le torri e tutti i materiali e mezzi di cantiere, oltreché per consentirne le manutenzioni e l’accesso durante l’arco dell’esercizio. Tutto questo mentre all’indomani dei sempre più frequenti e distruttivi fenomeni atmosferici (bombe d’acqua, nubifragi, alluvioni e quant’altro) geologi ed esperti ci ricordano che tra le cause principali del dissesto idrogeologico del nostro paese è l’eccessiva impermeabilizzazione e l’avanzato disboscamenti dei terreni che non riescono più ad assorbire le acque meteoriche. Come poi in che modo la sostituzione dei campi coltivati e delle masserie con le distese di pannelli fotovoltaici, possano qualificare e valorizzare il paesaggio del Bel Paese e attirare turisti resta un enigma irrisolvibile. L’assenza di intervento, in sede di emanazione legislativa, da parte del MIBACT è un’ammissione di inspiegabile disinteresse.
Analoghe preoccupazioni sorgono sul futuro sviluppo nella produzione e distribuzione dell’idrogeno.
Altra pressante questione è quella dei misfatti edilizi mistificati sotto la nobile locuzione della “rigenerazione urbana”.
Tutto è iniziato con il D. Lgs. n.112 del 25 giugno 2008 all’Art. 11, comma 1, che recita: “Al fine di superare in maniera organica e strutturale il disagio sociale e il degrado urbano derivante dai fenomeni di alta tensione abitativa, il CIPE approva un piano nazionale di edilizia. Questo piano “nazionale ha a oggetto la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente o di costruzione di nuovi alloggi ed è articolato, sulla base di criteri oggettivi che tengano conto dell’effettivo disagio abitativo presente nelle diverse realtà territoriali”.
Il “Piano casa”, che divenne operativo dal 1° aprile 2009, non è altro che una disposizione che permette di usufruire di incentivi per la ristrutturazione, l’ampliamento della casa o la sua ricostruzione ed è regolato da leggi regionali; sarebbe dovuto durare all’incirca un anno e mezzo, ma tutt’oggi sono vigenti sue proroghe in diverse regioni. Esso prevede dei bonus in base agli interventi edili apportati. Riguarda sostanzialmente interventi per la ristrutturazione e per l’ampliamento della casa con differenze che variano in base alla regione. Con gli anni questo piano casa è stato prorogato più volte e gli incentivi hanno inglobato anche interventi di efficienza energetica, miglioramento e adeguamento sismico fino a coinvolgere bonus per compensare le spese del mobilio per coloro che avessero acquistato una casa.
Grazie a questo Piano è possibile, previa demolizione, ampliare un edificio allargandolo o sopraelevandolo, attenendosi comunque alle direttive statali, in linea con i parametri edili normati a livello nazionale, presentando il progetto edilizio entro le scadenze stabilite a livello regionale. L’autorizzazione agli interventi è sempre comunque subordinata alla presentazione di una DIA (Denuncia di Inizio Attività) o al rilascio di un Permesso di Costruire. Il Piano Casa è stato declinato in diverso modo nelle varie Regioni, competenti in materia urbanistica. Molte sono state le proroghe che ha subito, alcune spostate fino al 31 dicembre 2019, altre spostate addirittura al 2020.
Nella regione Lazio il Piano Casa è stato riassorbito dalla legge regionale n.7/2017 sulla “rigenerazione urbana” che consente premi volumetrici fino al 40% nell’ambito di programmi di rigenerazione. La positiva e rassicurante locuzione di “rigenerazione urbana” è stata infine ripresa nella recentissima legge n.120 dell’11 settembre 2020 di conversione del decreto legge 16 luglio 2020 n. 76, recante misure per la semplificazione e l’innovazione digitale. L’articolo 10 della Legge (vedi nota a piè di testo) ha introdotto importanti modifiche al Codice Unico dell’edilizia: il DPR 380 del 6 giugno 2001. Particolarmente rilevante la modifica dell’articolo 2-bis, c.1-ter che consente “ampliamenti fuori sagoma” ed il “superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito”, al fine di “ assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processo di rigenerazione urbana”, in caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici ( consentita e recepita come ristrutturazione dai piani casa e dalle norme per il miglioramento e adeguamento sismico). Con grande difficoltà, dando l’impressione di una diga destinata a cedere, è stato difeso e mantenuto nella legge di conversione, grazie anche all’apporto isolato di ITALIA NOSTRA, la norma che subordina l’approvazione degli interventi alla disciplina del Recupero. Quello fissato per le “zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico”. Gli interventi di demolizione e ricostruzione sono sottoposti dunque “ai piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatti salvi le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela”.
L’articolo 10 liberalizza inoltre i cambi di destinazione d’uso e assimila gli interventi di demolizione e ricostruzione agli interventi di manutenzione straordinaria anche nel caso di “ modifiche ai prospetti degli edifici legittimamente realizzati, necessari per mantenere o acquisire l’agibilità dell’edificio ovvero per l’accesso allo stesso, che non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio, purché l’intervento risulti conforme alla vigente disciplina urbanistica ed edilizia e non abbia ad oggetto immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”. Quindi a difesa della stragrande maggioranza di edifici dei centri storici rimane soltanto il vincolo delle soprintendenze.
A Roma la realtà dei fatti ci insegna che i costruttori ben lungi dal cimentarsi nella rigenerazione urbana delle periferie hanno accentrato l’attenzione su isolate palazzine e villini dei quartieri storici, preferibilmente appartenenti ad una unica proprietà, quasi sempre di ente religioso o pubblico, soggette ai sensi dell’articolo 12 del Codice alla verifica dell’interesse culturale a cura delle soprintendenze che si sono trovate in grande difficoltà non potendo assimilare una decorosa palazzina dei primi del Novecento, tassello di un contesto storicizzato, ad un monumento di rilevante valore storico-artistico d’interesse nazionale. Una posizione tra l’incudine ed il martello che non ha potuto impedire la demolizione e ricostruzione con ampliamento di volume del Villino di via Ticino prossimo al quartiere Coppedè o del più recente caso di Villa Paolina, sottoposta invece a vincolo ma di fatto perduta nella sua originaria integrità in base ad una articolata autorizzazione che ne ha consentito, alla maniera parigina, lo svuotamento e la salvaguardia formale delle sole facciate. I due casi sono solo la punta di un iceberg che minaccia l’integrità dei quartieri storici della Capitale dove sono alti e remunerativi i prezzi di mercato delle case.
A mio personale giudizio è limitativo ed improprio l’utilizzo strumentale, seppure finalizzato alla tutela di un patrimonio comune, del vincolo di tutela monumentale sui singoli immobili. Un ricorso forzato alla dichiarazione di rilevante interesse storico-artistico che oltre ad essere soggetto ad eventuali contenziosi giudiziari (ricorsi al TAR e al Consiglio di Stato) si è dimostrato inefficace nei due casi citati. IL MiBACT dovrà invece accelerare l’operazione di tutela paesaggistica, quindi di insieme, dei quartieri storici di Roma, interni ed esterni alle Mure Aureliane, nati con Roma Capitale tra la fine dell’Ottocento ed il Novecento; dal quartiere Trieste a Prati, dai Parioli a San Giovanni, dalla Garbatella a Città Giardino, supplendo alla mancanza di tutele nel Piano Paesaggistico della Regione Lazio e del Piano di gestione connesso alla dichiarazione di sito Unesco, per la parte di Città compresa all’interno delle Mura Aureliane. E’ bene però ribadire che la materia è prioritariamente urbanistico-edilizia ed in tale ambito dovrà trovare soluzione, nonostante si preveda tempesta, alimentata non da ultimo dalla crisi economica post Covid e dalla necessità di fare ripartire l’economia, ci auguriamo non parassitaria e speculativa, della Nazione.
Legge n.120 dell’11 settembre 2020 di conversione del D.L. 16/7/2020 n. 76, art. 10 (estratto)
Al fine di semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese, nonché di assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processi di rigenerazione urbana, decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo al testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 2-bis, il comma 1-ter, è sostituito dal seguente: «1-ter. In ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici, anche qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini, la ricostruzione è comunque consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti. Gli incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati anche con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito, sempre nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti. Nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatti salvi le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela»;
b) all’articolo 3, comma 1:
1) alla lettera b), primo periodo, le parole «e non comportino modifiche delle destinazioni di uso» sono sostituite dalle seguenti: «e non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d’uso implicanti incremento del carico urbanistico» e, dopo il secondo periodo, è aggiunto il seguente: «. Nell’ambito degli interventi di manutenzione straordinaria sono comprese anche le modifiche ai prospetti degli edifici legittimamente realizzati necessarie per mantenere o acquisire l’agibilità dell’edificio ovvero per l’accesso allo stesso, che non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio, purché l’intervento risulti conforme alla vigente disciplina urbanistica ed edilizia e non abbia ad oggetto immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42»;
2) alla lettera d), il terzo e il quarto periodo sono sostituiti dai seguenti: «Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria»;