Ogni riflessione su Roma non può prescindere dal rapporto della città con il suo passato: la capitale del mondo, la città eterna, ha continuato a esistere in una forma di convivenza con i resti degli edifici antichi, inglobati, riutilizzati, adattati, fino a quando viene investita del ruolo di Roma Capitale (1870), dopo l’unificazione del Regno d’Italia (e, a seguire, durante il periodo del regime fascista.)
Italo Insolera propone di far iniziare la storia moderna di Roma già all’inizio dell’ottocento, con i decreti di Napoleone I Bonaparte, imperatore dei Francesi e re d’Italia per “l’embellissiments de notre bonne ville de Roma”, di forte impronta culturale indirizzata al recupero delle antichità e con la previsione di grande parco archeologico nell’area centrale con la Via Appia che aveva origine ai piedi del Palatino (Roma moderna, 2011).
Le scelte compiute per adeguare Roma al nuovo ruolo di capitale hanno invece comportato trasformazioni urbanistiche ed edilizie che hanno impegnato, in forma più radicale, alcuni dei luoghi più rilevanti dell’antichità. Il paesaggio che aveva caratterizzato la città per secoli andava scomparendo per dare vita al progetto per la zona monumentale riservata, noto come ‘Passeggiata Archeologica’, comprendente il Palatino, la valle del Foro e del Colosseo, le Terme di Tito, parte del Celio, il Circo Massimo e parte dell’Aventino, le Terme di Caracalla, la via Appia e la via Latina fino alle mura.
E’ a questo ambito che rivolgiamo la nostra attenzione per provare ad immaginare soluzioni alla frammentazione della fruizione di questa vasta zona che consideriamo in una inscindibile continuità.

Il piano ambizioso avviato dal 1887 con l’obiettivo di congiungere i monumenti più antichi che si trovano nella zona meridionale della città con giardini pubblici e viali alberati, è stato attuato in forma diversa dalle previsioni originarie. La Commissione Reale, presieduta da Giuseppe Fiorelli, solo nel 1907 avvia la fase operativa con il fine, non riuscito, di celebrare nel 1911 i cinquant’anni dell’unità d’Italia. Molte testimonianze archeologiche vengono sacrificate in nome di una modernità che equiparasse Roma alle altre capitali europee; i monumenti sopravvissuti, come il rudere di Porta Capena, la Vignola Boccapaduli (smontata e ricostruita nella parte opposta della strada), Santa Maria in Tempulo, rimangono isolati dal contesto e incomprensibili. L’archeologo della Commissione, Giacomo Boni, si dimette per il disinteresse verso le indagini archeologiche e perché il primo tratto della Via Appia scompariva sotto il nuovo viale. Boni viene sostituito da Rodolfo Lanciani che inaugura la Passeggiata archeologica per il natale di Roma del 1917. Il programma per questa zona si completa con Benito Mussolini che realizzerà, in funzione della propaganda del regime, un collegamento della città con il nuovo quartiere per l’esposizione universale, l’EUR, attraverso le tre grandi arterie, via dell’Impero, via dei Trionfi (via di San Gregorio) e via Imperiale al posto della Passeggiata archeologica.

Precedentemente, dai primi decenni dell’ottocento, durante il Governo Pontificio, l’Appia aveva ricevuto attenzioni particolari, luogo prescelto per mettere in campo nuove metodologie e progetti per la conservazione sul posto dei reperti archeologici dei monumenti, affermando il valore del contesto e l’inscindibile relazione tra questi e la zona di ritrovamento, principio culturale che sarà ispiratore delle prime leggi di tutela. Ad Antonio Canova e a Giuseppe Valadier si devono le prime realizzazioni che porteranno, qualche anno dopo, tra gli anni 1850 e 1853, al compimento della grande opera di risistemazione della Via Appia da parte di Luigi Canina, Commissario alle Antichità di Roma del Governo Pontificio. Oltre al restauro della strada furono acquisite alla proprietà pubblica le fasce laterali con i monumenti funerari, realizzando un grande “museo all’aperto”, luogo d’attrazione dove si potevano ammirare i sepolcri restaurati e i reperti trovati sul posto allestiti in quinte murarie, costruite ad hoc presso i nuclei originari dei sepolcri.
L’impegno pubblico, sostenuto dai più illustri studiosi dell’epoca, era stato motivato dalla convinzione che l’Appia, con il suo ricchissimo patrimonio monumentale, dovesse essere al centro di un grande progetto di recupero per la conservazione e il godimento pubblico; impegno ripagato dal risultato apprezzato da visitatori italiani e stranieri che venivano ad ammirare l’Appia restituita.
L’integrità dell’Appia monumento nel suo complesso, iniziò a essere pregiudicata per interessi privati e pubblici di diverso genere già dalla fine dell’ottocento con la costruzione del Forte Appio e i conflitti con i proprietari dei terreni in affaccio sulla strada. Ciò, nonostante lo Stato per alcuni decenni continuasse a rivolgere attenzioni all’Appia, senza smettere di custodirla e in parte valorizzarla, anche con la piantumazione di pini e cipressi tra il 1909 e il 1913, a cura di Antonio Muñoz, allora ispettore della Regia Soprintendenza ai Monumenti, per curare il «lato pittoresco della storica via».
Il declino diventa inarrestabile, fino ai nostri giorni, quando gli interessi privati prevalgono e vengono rilasciate concessioni per l’edificazione di ville, firmate anche da architetti celebri che non esitano a decorare, con estro, le nuove costruzioni con i resti dell’antico reperiti sul posto o ad adattare a residenze alcuni monumenti antichi, in contrasto con la concezione di tutela indirizzata alla conservazione del contesto e dell’ambiente monumentale.
A nulla sono valsi l’impegno civico e delle associazioni, con Italia Nostra in prima linea e l’instancabile attività di Antonio Cederna a partire dal suo primo articolo “I Gangster dell’Appia” dell’8 settembre 1953, sulla rivista Il Mondo.
Nell’alternanza di leggi e norme di tutela che hanno caratterizzato il destino dell’Appia, l’atto più importante, almeno sulla carta, è stato il decreto del 1965 del Ministro dei Lavori Pubblici Giacomo Mancini, di approvazione del Piano Regolatore di Roma, che ha sancito l’inedificabilità per tutto l’ambito destinato a Parco Pubblico, al fine di garantirne la tutela integrale per gli “eccezionali valori paesistici, ambientali, archeologici, monumentali” e assicurarne l’accesso e il godimento da parte del pubblico. Questo atto avrebbe dovuto segnare un nuovo corso, per correggere gli errori e garantire il rispetto di uno stato di legalità, avviando la graduale acquisizione delle aree e dei complessi monumentali; al contrario – e decadute dopo cinque anni le previsioni di esproprio di tutto l’ambito, ma non le tutele – si è lasciato spazio a un abusivismo inarrestabile e alla crescita di attività incompatibili che hanno, inevitabilmente, alimentato un traffico veicolare intenso, in assenza di iniziative per la valorizzazione del patrimonio e la sua fruizione attraverso un sistema di servizi pubblici.
I risultati conseguiti negli ultimi vent’anni, nell’ambito dei programmi dell’allora Soprintendenza Archeologica di Roma, se pure importanti, possono essere considerati solo l’esempio da seguire per la crescita della conoscenza dell’immenso patrimonio dell’Appia e la sua maggiore fruizione pubblica.
Si ricordano solo i restauri della strada e dei monumenti sui lati, la ricucitura della ferita del GRA, l’apertura dei siti come il Mausoleo di Cecilia Metella con il Castrum Caetani, la Villa dei Quintili e di quelli di nuova acquisizione, Capo di Bove, S. Maria Nova, dopo gli interventi di scavi,
restauri, studi, allestimenti, adeguamenti. Parallelamente è stato svolto, sempre da parte della Soprintendenza, un impegno straordinario per una incessante azione di tutela e di contrasto verso ogni forma di illegalità e violazione delle norme, nell’interesse pubblico, al quale non hanno invece corrisposto le attenzioni che sarebbero state necessarie, per la portata del fenomeno, da parte delle altre amministrazioni. Sono, inoltre, ancora numerossimi i monumenti in proprietà privata, un patrimonio dimenticato e invisibile che non riceve cure per la conservazione, a rischio di perdita.
E’ evidente che la soluzione non si esaurisce con il recupero di testimonianze isolate che, se pure importanti per gli studi e la fruizione, non sono risolutive per un progetto di ampia portata che conferisca all’Appia un ruolo culturale adeguato ai suoi valori, moderno nelle infinite opportunità in grado di offrire alla città una ritrovata unitarietà con se stessa e l’area archeologica centrale.
Solo la volontà politica e una intesa per un impegno concreto tra le diverse amministrazioni competenti possono salvare l’Appia, molto spesso al centro di una effimera attenzione mediatica, non sostenuta da effettive determinazioni, anche solo per un piano di limitazione del traffico studiato in relazione alle esigenze che si sono lasciate crescere e con le zone esterne, soprattutto con provvedimenti per alternative di trasporto pubblico, anche in collegamento con le stazioni di metropolitana e le strutture ferroviarie esistenti o messe in condizione di funzionare.
La situazione, in generale, richiede ancora una intensa attività di tutela, particolarmente impegnativa, inoltre, a causa delle leggi sui condoni che da oltre venti anni hanno determinato procedure complesse, anche per il protarsi dei tempi, tra pareri e ricorsi amministrativi che non sortiscono alcun effetto sullo stato di fatto, estinguendosi nelle pratiche tra gli uffici.
Fino alla metà degli anni ottanta e in particolare alla c.d. Legge Galasso (L. 431/85), gli strumenti di tutela non hanno espresso norme giuridiche riferibili al concetto di bene archeologico come parte di un sistema territoriale complesso i cui caratteri sono in relazione tra loro. Alla tutela era assegnato per lo più un ruolo di difesa, reso inevitabile dall’aggressione edilizia, dal consumo di suolo e dalle menzionate leggi sui condoni degli ultimi decenni, con la convinzione errata, ma comprensibile, che lo strumento del vincolo fosse “passivo”, senza che se ne cogliesse la potenzialità in termini di conoscenza del territorio e quindi di indirizzo nelle sue forme di conservazione e uso che hanno come fine ultimo la valorizzazione. La legge 431/85 ha avuto il merito di estendere il concetto di tutela, oltre al monumento e l’ambito circostante, alle zone ritenute d’interesse quali beni d’insieme in una correlazione tra valori archeologici e paesaggistici.

Alle Regioni è demandata la redazione dei Piani Paesaggistici con i quali vengono indicate norme oltre che per la tutela anche per la pianificazione e l’uso del territorio perimetrato, in forma condivisa tra le amministrazioni, avendone recepito anche le tutele specifiche. Per l’Appia un contributo fondamentale è offerto dallo specifico Piano Territoriale Paesistico
(PTP ambito 15/12 Valle della Caffarella, Appia Antica e Acquedotti), vigente dal 2010 di elevata qualità e con una scala di rappresentazione molto dettagliata, tale da fornire indicazioni per la tutela, la pianificazione e la progettazione anche di specifiche situazioni monumentali, per assicurare la tutela dei caratteri distintivi delle aree e dei beni e la loro valorizzazione. Il Piano si pone obiettivi molti alti considerata anche l’importanza che l’Appia ha avuto nella cultura europea, testimoniata dalla mole di documenti scritti e iconografici ed estende il campo d’iteresse anche alla Via Latina.

All’assenza di una normativa specifica per i Parchi Archeologici da parte dello Stato, negli ultimi decenni del secolo scorso, ha corrisposto invece una attenzione da parte degli Enti locali per la gestione dell’ambiente che hanno usufruito anche di cospicui finanziamenti europei per azioni di assetto e la valorizzazione di ambiti riconducibili a realtà a carattere monumentale e paesaggistico le cui competenze afferiscono alle Soprintendenze. La legge quadro sulle aree naturali protette, L. 394/1991, ha previsto un sistema di parchi regionali, intesi come parchi ambientali ma che hanno spesso incluso aree di preminente interesse archeologico. La Regione Lazio con la L. 29/97 ha recepito la legge nazionale e ne ha ampliato i contenuti fino a sovrapporsi con le leggi di tutela statali, determinando quindi una notevole confusione giuridica. I Parchi Regionali sono dotati di un piano di assetto, alla cui redazione non è prevista la partecipazione delle Soprintendenze e del Ministero a cui competono i beni ricompresi in detti ambiti.
Nello specifico, l’Appia, inclusa nelle aree protette della Regione Lazio e quindi nel Parco Regionale, è diventata un Parco Archeologico a seguito della recente riforma del Ministero, come definito dai DM 23.1.2016 e DM 9.4.2016, quale parco di rilevante interesse nazionale. La struttura organizzativa è la stessa dei Musei dotati di autonomia speciale, ma il Parco Archeologico dell’Appia Antica svolge anche le funzioni di Soprintendenza per la tutela totale di tutto l’ambito perimetrato che si è fatto coincidere con la perimetrazione del già esistente Parco Regionale, istituito dalla Regione Lazio con la legge 66 del 1988.
E’ evidente che vi sono contraddizioni sul piano normativo per le due istituzioni che hanno competenze sullo stesso ambito territoriale, se pure in settori diversi, motivo di possibili incertezze sia nei rapporti tra le amministrazioni che nei confronti dei cittadini. L’art. 145 del Codice dei beni culturali ha introdotto una regola inversa a quella stabilita dalla Legge quadro n. 394/91 sulle aree naturali protette, ossia la prevalenza del Piano Territoriale Paesistico sui piani dei parchi, anche in considerazione della partecipazione dello Stato alla elaborazione dei Piani Paesaggistici; la Corte Costituzionale ha inoltre precisato la competenza esclusiva dello Stato in materia di “tutela” dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, modificando il quadro di riferimento in cui si inseriva la Legge quadro 394/1991 sulle aree naturali protette. Rimane dunque non chiaro quale debba essere il contenuto del piano di assetto del Parco Regionale in presenza di un Piano Territoriale Paesistico vigente. Anche i valori naturalistici e ambientali, infatti, rientrano nella definizione di Paesaggio e non si può negare la presenza preponderante della Via Appia e delle testimonianze antiche ancora ben conservate, insieme a quelle che si trovano lungo l’asse della Via Latina. I problemi potrebbero essere risolti integrando il Piano Territoriale Paesistico con i contenuti del Piano d’assetto dell’ente regionale per le specifiche tecniche e la protezione degli habitat, con l’obiettivo di ottenere uno strumento di tutela completo.
Le competenze del nuovo istituto autonomo del Parco Archeologico dell’Appia Antica, creato con la riforma del Ministero, con i decreti sopra richiamati, riguardano alcuni siti e monumenti di proprietà dello Stato, alcuni non aperti al pubblico, o che si trovano in terreni di proprietà di altre amminisrazioni o privata (come gli acquedotti) e una tutela totale (archeologica, architettonica, paesaggistica e storico artistica) nei confini corrispondenti a quelli del Parco Regionale. Mentre la definizione dell’ambito dell’Appia come Parco Archeologico (prevista dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio tra i luoghi della cultura, art. 101 lettera e) rappresenta un momento importante nel riconoscimento dei caratteri preminenti di questo territorio, si riscontrano comunque numerose criticità di carattere culturale e gestionale che destano preoccupazione.
Il Parco Archeologico, infatti, separa l’Appia dal suo primo tratto e dall’area archeologica centrale da cui aveva origine, presso il Palatino e con la quale si dovrebbe ricostituire l’unitarietà, pur tenendo conto della situazione attuale.
La storia ha fatto sì che il cuore antico di Roma con l’area archeologica centrale e l’Appia venissero separati per le soluzioni urbanistiche sopra accennate, nell’impedimento a collaborare per ritrovare la continuità naturale, evidente in qualsiasi rappresentazione della città e quel legame fino ai Castelli Romani definito da Ludovico Quaroni (Immagine di Roma 1969), una “attrazione ancestrale”, costituita dalla presenza della Via Appia. L’assetto in continuità con l’area archeologica centrale e la connessione con l’area della Tombe Latine e il Parco degli Acquedotti sono egregiamente illustrati nello studio completo per il piano del Parco dell’Appia Antica, avviato nel 1973 e pubblicato nel 1984, promosso da Italia Nostra, a cura di Vittoria Calzolari, ancora di piena attualità.
Se la Passeggiata archeologica ha avuto un epilogo diverso dalle originarie previsioni, come sopra accennato, sarebbe ancora possibile la ricucitura degli ambiti Fori/Palatino, Colosseo, Celio, Terme di Caracalla e Appia Antica.
Alla individuazione di soluzione per sviluppare progetti in coerenza per questi ambiti connessi culturalmente non contribuisce la netta separazione delle competenze in diversi istituti autonomi del Ministero. La creazione dei Parchi dell’Appia e del Colosseo, tra i quali territorialmente è la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, con gestioni distinte, determina l’indirizzo delle scelte culturali e progettuali all’interno dei diversi Istituti, i quali sono istituzionalmente chiamati a svolgere compiti inerenti i propri ambiti, in una delimitazione di confini che contrasta con la continuità esistente tra le aree con i complessi monumentali e in un assetto amministrativo sbilanciato anche per quanto riguarda le risorse economiche e logistiche, avendo determinato una gerarchia inopportuna per il patrimonio e il suo godimento.
L’approccio al problema, al quale non ci si può sottrarre, deve essere sostenuto da una visione che risponda a un programma culturale complessivo e non basato su aspetti di gestione di tipo economicistico che hanno motivato i frazionamenti a vantaggio dei monumenti icona, piuttosto che la comprensione e fruizione del vasto ambito in grado di illustrare la storia, la società, i modelli della propaganda politica, le forme dell’architettura e dell’arte, le trasformazioni nel tempo.
In questo senso non sembra che la realizzazione del piano dell’arena del Colosseo (costo 18.5 milioni di euro), per la cui progettazione è in corso un bando, possa offrire un contributo in quanto non ha lo scopo di migliorare la visita e la fruizione del monumento da parte della collettività, ma di creare nuove opportunità di utilizzo per lo stesso, non ancora rese note.
Solo conferendo a questo ambito una funzione anche urbanistica e sociale, in una piena integrazione con la città si può aspirare al conseguimento di un assetto per la Capitale che la caratterizzi sulla base della propria identità come metropoli contemporanea. L’opportunità di una frequentazione sociale proprio nei luoghi che sono stati protagonisti della vita pubblica dell’antichità, costituirebbe una occasione irripetibile per un ruolo che solo Roma può svolgere, allontanando una mera fruizione di tipo turistico, entrando a far parte della vita dei cittadini. Un capovolgimento in tale senso avrebbe rilevanza internazionale e sarebbe in grado di muovere un turismo più consapevole, non affidato a scelte preconfezionate.
In questa direzione va considerato anche il recupero del Palazzo Silvestri Rivaldi, in cui si intreccia una storia secolare e ubicato in un punto di particolare interesse sui Fori imperiali, in ciò che rimane della collina Velia, sventrata in epoca fascista per la realizzazione di Via dei Fori Imperiali (già Via dell’Impero), quando anche il giardino del palazzo fu mutilato dagli sventramenti. Gli ampi spazi di pregio architettonico e storico artistico, oltre alle scoperte archeologiche svolte sotto la guida di Adriano La Regina e Filippo Coarelli, fanno di questo edificio, metafora di tante storie, battaglie, usi sociali, l’elemento mancante per l’area archeologica centrale, per accogliere cittadini e turisti, presentare la storia e le trasformazioni nei secoli, spazio espositivo e per incontri culturali nella eccezionalità del luogo pressochè sconosciuto.
Conoscenza e progetto devono essere alla base di scelte consapevoli e ambiziose adeguate ai valori unici e universali di Roma. Cederna ha dichiarato che “la battaglia per la difesa dell’Appia Antica è stata certo la più lunga e la più impegnativa fra quelle condotte per l’urbanistica romana del dopo guerra…si trattava di impedire che uno dei più straordinari complessi archeologico-paesaggistici d’Italia diventasse un qualsiasi suburbio cittadino…”. Se alcune ferite sono state sanate, molto rimane ancora da fare e la soluzione va trovata con tutta la città.
A 150 anni da Roma Capitale occorre ripartire dalle trasformazioni che hanno riguardato l’anima della città antica, assumendone gli esiti, con la volontà di realizzare un progetto che potrebbe rendere Roma il “punto di riferimento di una moderna cultura urbana” (Insolera, cit.).
E’ nota la circostanza per la quale il centro della città è privo di strumenti di tutela d’insieme, carenza alla quale non si è determinata una soluzione anche con il PTPR della Regione Lazio, strumento che, d’intesa con le altre Amministrazioni, Ministero e Comune, avrebbe potuto/dovuto sanare tale mancanza. Le conseguenze sono evidenti in recenti singoli casi che hanno evidenziato la fragilità dell’azione della tutela e i conseguenti contenziosi amministrativi, per lo più a seguito di una mobilitazione civica da parte di associazioni a salvaguardia di interessi pubblici. E’ dunque inderogabile perimetrare e salvaguardare la città storica affinché non prevalgano interessi individuali a danno del tessuto urbanistico di carattere consolidato. L’offesa a cui la città è frequentemente sottoposta va superata con un riconoscimento d’interesse dal quale partire per l’affermazione del primato dei caratteri preminenti di Roma superando la separazione tra le testimonianze antiche da visitare e la città
In conclusione preme fare una considerazione fondamentale per definire una volta per tutte l’approccio con l’Appia, alla luce di ricorrenti occasioni e uscite mediatiche, in particolare sulla pedonalizzazione della strada, poiché questo approccio è del tutto errato, comunica alla collettività un messaggio non adeguato allo stato delle cose e ai provvedimenti che andrebbero realmente assunti e perché la soluzione per l’Appia non può essere ridotta in questi termini. In particolare, annualmente, questo tema torna nella circostanza dell’Appia Day (ma non solo), iniziativa apprezzabile perché coinvolge più luoghi lungo il tracciato dell’Appia, anche oltre Roma, e richiama l’attenzione del pubblico.
Per una soluzione efficace occorre ripartire dall’Appia stessa, dalla specificità del suo patrimonio, considerata la realtà attuale determinata da decenni di inerzia delle amministrazioni che lascia tuttavia aperte possibilità ad altre soluzioni, per procedere verso una fruizione e effettiva valorizzazione dei luoghi. E’ fondamentale l’approccio adeguato con questo ambito, nella sua vastità e interezza, con la consapevolezza dei valori preminenti, della necessità di un impegno nello studio del patrimonio per la conoscenza e l’effettiva valorizzazione, senza tentare forzature che potrebbero alterarne il carattere, allontanando il patrimonio di secoli di storia, iconografia, letteratura per offrire in cambio una passeggiata in bicicletta, un pic nic, uno svago all’aria aperta che, se pur apprezabile, non esalta la specificità dell’Appia.
