Il problema è quello della storia e della cultura occidentale: dagli antichi sino a noi. Così esordiva François Hartog in un raffinato resoconto sul raffronto antichi/moderni comparso ormai venticinque anni fa tra le pagine de “I Greci”: antologia enciclopedica sull’attuale collocazione della cultura classica. L’analisi prende in considerazione molti nodi: eruditi, conflittuali, attualizzanti, ecc. che hanno regolato la storia del rapporto con l’età e la cultura degli antichi.
L’antichità è una nozione relativa, filtrata appunto dalla storia, attraverso regole assunte dalle diverse humanitates, prima di ogni altra la visione estetica. Da Apro, che ricordava come tanto poco tempo esistesse tra la sua generazione giulio-claudia e quella omerica, fino agli umanisti del Cinquecento. Il Tempo è un meccanismo entro cui ci confrontiamo nella fallacia delle sue criticità: scomparsa nel buio dell’oblio ed apparizione nella luce della diversità; conoscenza e distruzione. Il progresso è sempre stato: rifiuto ed emulazione, come effetti di una ripulsa o di una fascinazione entro cui vive la continua tensione della cultura.
Di ogni biblioteca si può forse dire che contiene lo spirito e la forza del passato dal momento che consegnato ai tipi, qualsiasi libro appartiene presentemente ad un trascorso. Questo a dispetto di Swift che in “The Battle of the books” monta una gustosa parodia della guerra tra scienza e ragione moderna contro i sacri testi di Omero, Cicerone e Virgilio. Libri che nella buia biblioteca di St. Jame’s Palace, si danno di dorsate e copertina l’un contro l’altro. Ed una delle più inutili biblioteche che, nella complicazione del sapere vive come impotente formalità di una metafisica, è quella di don Ferrante dei Promessi Sposi manzoniani. Lui – oggi più che mai – riassunto di sindromi moderne tra le quali il negazionismo della peste che gli procurerà una miserevole morte. Pur riconoscendo formalmente la superiorità degli antichi, Manzoni del don Ferrante dice che “non poteva però soffrire quel non voler dar ragione ai moderni, anche dove l’hanno chiara che la vedrebbero ognuno”. Esempio nel Machiavelli: un mariuolo! Cose per cui si definirà un peripatetico. Non nel significato della scuola aristotelica bensì palese, nell’essere “di cosa che avviene o si fa passeggiando”. Una metafora insomma di tutte queste avversioni.
Qual è lo stato dell’arte oggi? Dove mai è andato a finire questo atavico antagonismo tra antico e contemporaneo?
L’attuale stato è tutto in ciò che si oppone al concetto umanistico di “aemulatio” come l’emblematico sentimento del preteso diritto di essere nuovo e diverso. In netta opposizione ad un “passato” vive senza una vera e propria categoria della storicità; lontano da una scienza fondata sul principio della consapevolezza di un presente raggiunto.
Tutto questo è oggi arrivato al cospetto di un impotente utilitarismo dove si affermano le riduzioni semplicistiche. Le antichità, i nostri monumenti, le nostre città che hanno insegnato al mondo, tornano così come gli “utili idioti” a rappresentarsi quale sfondo significante di singole azioni legate a qualcuno che non possiede altre virtù da mostrare. Un uso occasionale e strumentale del “ben noto” e del sublime. Questa categoria dell’utilizzatore guida la pretesa moralità dell’essere fatalmente ed irrimediabilmente contemporanei; giustificando l’ingiustificabile e mettendo insieme le capre ed i cavoli nell’indifferente significato delle cose.
Delitti perfetti si compiono per il tramite di questa preassoluzione che appartiene più che altro al diritto “barbarico” del Potere.
Con questo remissivo fatalismo rischiamo che: le Terme di Caracalla vengano lasciate intorno ad un “drive food”; una platea hi tech abbia a sfondo il Colosseo come una semplice immagine; una città faccia della sua più significante radice come “gli antichi Fori” un luogo di passeggiate domenicali e di bicicli in libertà o se si vuole più genericamente che l’opera di un fortuito artista sgomiti tra molte altre negli ambienti di una sublime dimora. Come se altri luoghi non vi fossero.
Un architetto, categoria a cui notoriamente si deve la più libera creatività, inspiegabilmente divenuto elargitore di un gratuito progetto riguardante le nuove sorti di una storica biblioteca come quella di Palazzo Venezia ha dichiarato che il compito della nostra generazione è di “interpretare al meglio” la contemporaneità. L’operazione (così nel testo) da lui proposta dimostrerebbe che: “c’è della modernità nell’antico e c’è dell’antichità nel nuovo” (!). Il suo progetto che occuperebbe nuovi vecchi palazzetti di una Roma cresciuta sotto i piedi dei curiali papalini sostituirebbe l’illustre e magnifico palazzo costruito da Meo del Caprino e Francesco dal Borgo, cugino di Piero della Francesca; ma questo è un dettaglio assai collaterale per il contemporaneo. Lo scambio di ruolo del “passato” è tutto lì. In quel disegno di pergola di una Roma pinelliana. Più in là seduti su di una panca a delta rovesciata – licenza al design moderno – tre persone chiacchierano a bassa voce e così sfumano in rapidi segni di penna in su ed in giù. A sinistra in basso il titolo del soggetto raffigurato confessa, nell’ambigua locuzione, la risposta ai nostri quesiti: “La Corte”.