Nel mio intervento non offrirò – spero di non deludervi per questo – tecnicismi contro il ponte sullo Stretto di Messina. Questa lotta territoriale desidero iscriverla nel quadro delle lotte per la giustizia ecosistemica e multispecie e collocarla nell’era geologica che viviamo. Vi darò delle ragioni contro il ponte che sono anche delle passioni molto legate ai miei studi eco/trans/cyborgfemministi e al mio posizionamento felicemente terrone.
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Da bimba (mia madre di cognome fa Cariddi) mi dicevo contro il ponte di pancia, con la passione di un corpo che semplicemente non desidera ostacoli tra sé e l’acqua. Oggi sono ancora quella bimba che anela a divenir cetacea e perdersi tra i flussi, ma in più ho scoperto che la passione di allora è una validissima ragione scientifica: i ventri dell’evoluzione sono umidi e salati, e noi mammifere non abbiamo fatto altro che uscire e rientrare in acqua per divenir quel che siamo. Ora ho quarant’anni e sono emigrata e poi sono tornata e di nuovo re-immigrata, piuttosto mi faccio Milazzo-Torino in 20 ore di intercity per raggiungere la fabbrica cognitiva detta università in cui lavoro, ma ancora il mio è un no al ponte sullo stretto.
Il mio no al ponte sullo stretto è un no al sistema riproduttivo tutto, di cui il ponte in Sicilia, come la TAV in Val Susa, costituiscono gli estremi. Non voglio dibattere sulla logistica, sulla fattibilità e la tenuta. Può venire la governance tecnoscientifica mondiale a validare, noi comunque non ci possiamo fidare. Non ci possiamo fidare perché siamo le Terre dei Fuochi, perché le comunità che abitano il tirreno sanno bene che tra Napoli e l’Eolie è tutto un vulcano e un terremoto, perché a ogni terremoto non si è ricostruito, si è solo speculato. Basterebbe il rispetto per quelle che Haraway chiama divinità ctonie
2, le dee della terra, cui aggiungo le divinità talassiche, le potenze materiali-energetiche che da sempre smuovono mostruosamente questi lidi (non a caso chiamati Scilla e Cariddi) per capire che al ponte si può dire solo no. Ma non è solo perché la scienza al servizio di stato e mercato non capisce l’irriverenza di correnti e venti tra Ionio e Tirreno che non ci possiamo fidare. Non ci possiamo fidare pure perché lo sappiamo già a cosa porta il sistema riproduttivo tecnocapitalista, di cui Salvini e il governo Meloni sono solo una delle peggiori incarnazioni: porta ai loro mega impianti industriali, a Messina, in particolare Milazzo, trasformata in un sito di interesse nazionale per i livelli senza pari di inquinamento. Lo sappiamo sulla nostra pelle che non ci possiamo fidare perché le nostre sono biografie tossiche.
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La mia biografia, eccola qui. Figlia della cultura biotech ignoro quasi cosa sia una mucca pur vivendo nella parte di mondo che produce e inquina più di quello che consuma per allevarne una. Cresciuta tra amianto e petrolio, tra mafia e camorra, al mare ma con lo sguardo rivolto alla raffineria di Milazzo, in terre inghiottite da termovalorizzatori e rifiuti tossici, mi chiedo se devo trovare una statistica ufficiale che attesti che il cancro all’utero e i vari al seno di mia madre e di tutte le altre madri/zie/sorelle/madrine/cugine/amichediamiche, siano collegati all’inquinamento seguito all’industrializzazione criminale del sud Italia.
Mi dicono di si, mi dicono che non bastano le passioni servono i dati. E allora darò i dati, ma sarà un modo per fare un po’ di storia, per non perdere la memoria e per tracciare una via di fuga, per cominciare a scrivere insieme un #noponte che diventi un no all’ingiustizia riproduttiva, un si alla proliferazione delle parentele multispecie.
Cominciamo con qualche dato su Milazzo per poi allargare lo sguardo all’era geologica e assumere una postura che dalla scala territoriale ci porti a quella planetaria. Per poi capire cosa è questo “compost da a/mare”.
Quando emergo dall’acqua a Levante la prima “cosa” che vedo è la raffineria, ormai ai miei occhi una macchia di fumo nero con molti punti luce e uno che brucia più di tutti, il fuoco che dovrebbe essere qui solo di Vulcano ed Etna e che abbiamo acceso per rimanere sempre accesi nelle maglie del capitale. C’è da quando ho ricordi di questo mare, dalla metà degli anni Ottanta è una delle troppe fucine del riscaldamento globale, oggi di proprietà ENI e Kuwait. Questi impianti di lavorazione del petrolio distruggono la salute di tutte le creature costiere, dell’ecosistema marino nel suo insieme, di cui pur facciamo parte noi. Se c’è un “eccesso di IPA nelle polveri campionate a Milazzo”, non solo nel caso degli incidenti e dei relativi incendi, è di ENI e Kuwait la responsabilità. Gli IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) possono essere cancerogeni, tramite la respirazione raggiungono sangue e tessuti
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Non solo per gli IPA, Milazzo rientra nei SIN (siti contaminati di interesse nazionale), purtroppo supera i valori limite di qualsiasi indicatore, che si tratti di qualità dell’aria, inquinamento delle falde acquifere, microplastiche in mare. Non poteva che essere così, se stiamo alla sintesi che ne fa il Ministero dell’ambiente, infatti, qui
insiste un polo industriale (attivo dagli anni 60) che ospita diverse tipologie di insediamenti produttivi, quali: raffinazione di petrolio (Raffineria); produzione elettricità (Centrale elettrica Edipower ex Enel, Centrale elettrica Termica Milazzo ex Sondel); siderurgia (Duferco Travi e Profilati S.p.A.); produzione apparecchiature elettriche (ETS); stoccaggio elettrodomestici (stabilimento Messinambiente S.p.A.), lavorazione di amianto, attività ora completamente dismessa (ex Sacelit ora Punto Industria), oltre a diversi depositi di prodotti petroliferi e discariche di rifiuti industriali.
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A leggere i report scientifici, mi sale una rabbia che si trasforma in lacrime salate per tutta la mia parentela mammifera umana e cetacea. Perché SiSo qui a Milazzo lo ha ucciso la plastica
6 ma in corso in queste terre c’è un vero e proprio ecocidio che ha troppi diversi mandanti. Perché le/i mie/i parenti non contano cancri e infarti, per i tumori al seno e all’utero di madri-zie-madrine, per l’endometriosi delle mie sorelle, perché siamo cresciute a nostro agio con scaramantiche affermazioni del tipo “di che cancro ci ammaleremo” fondate, oggi apprendo dal report Sentieri 2023, su un’intuizione diventata statistica: tra Milazzo e Pace del Mela si registra un eccesso di mortalità per malattie del sistema circolatorio, malattie ischemiche del cuore e dell’apparato urinario; si nasce con più anomalie congenite, soprattutto ad apparati riproduttivi e arti. Le malattie respiratorie hanno un’incidenza elevatissima e l’aerosol marino da solo non basta a compensare. Gli stati infiammatori sono la norma nelle Terre dei Fuochi. Continuo a leggere il report Sentieri e apprendo che l’insufficienza renale cronica, il tumore alla prostata, i tumori al seno, sono tutti collegati ai PCB e al benzene. Per questo dobbiamo ringraziare la
Terra di Mordor, la raffineria, come la chiamiamo qui. E come se non bastasse bisogna fare i conti anche con l’ombra lunga di amianto e cemento, perché qui la Sacelit di Pace del Mela su 220 operaie e operai ha causato la morte di 150 persone.
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Ricordo che il polo industriale è stato accettato dalla cittadinanza per una sola ragione: ha vinto la retorica dello sviluppo, dei posti di lavoro. La stessa con cui ci ricattano oggi. Ricordo che dell’amianto si diceva fosse sicuro e che anche se fior fior di scienziati controllano costantemente la raffineria questa ha fatto sette morti nell’incendio del 1993 e, nonostante il processo avviato dopo l’ultimo incendio del 2014, è ancora in funzione.
Quello che ci tocca in sorte con questo Salvini che resuscita le smanie fallocentriche dell’ingegneria industriale non è purtroppo diverso da quello che ci è già capitato. È un già visto che per molte di noi è un già sofferto, un già compianto, un già lutto. Non ci serve un altro danno, basta aggiungere guaio a guaio, Messina ha bisogno di rigenerazione, non altra devastazione.
E comunque…quanto è razzista e classista questo ricatto? Come è possibile che al sud i posti di lavoro si debbano sempre creare con la logica dell’addizione e della crescita industriale? Siamo solo manodopera da impresa di costruzioni, come mai per “far circolare l’economia” qui si sa solo cementificare e insabbiare rifiuti tossici? Siamo tutte/i destinate/i a diventare operaie/i in qualche industria che verrà poi chiusa tra 20 anni per tossicità? Come mai qui non si può investire su università e centri di ricerca, scuole e ospedali, teatri e biblioteche? In un territorio devastato come il nostro, prima di investire in tanto grandi quanto inutili opere, bisogna fare della giustizia riparativa, investire in salute ecosistemica, se si intende tutelare la salute umana.
Il nord post-fordista che viene a fare smart-working e turismo di massa sarà forse felice del ponte, noi faremo bene a spiegargli che sostenendo il ponte e la spinta iperproduttivista che lo anima, contribuisce a distruggere non solo l’isola che dice di amare ma il pianeta Acqua tutto. Noi dobbiamo spiegare che il sistema riproduttivo capitalista che giustifica la necessità del ponte in nome di una iperaccelerata circolazione di persone e merci è esattamente quello che ci ammala e che ha alterato in modo nefasto le condizioni di vita sul Pianeta. E se cercano di fare operazioni di
greenwashing del tipo “col ponte arriva più turismo”, noi dobbiamo ribattere che il turismo di massa risponde alle stesse logiche dell’industrialismo e che non faremo le loro cameriere senza contratto mentre assistiamo attonite alla plastificazione dell’isola.
È il turismo il maggiore produttore dei rifiuti che infestano le isole del Mediterraneo. Lo studio
The generation of marine litter in Mediterranean island beaches as an effect of tourism and its mitigation8 di Michaël Grelaud e Patrizia Ziveri attesta che il Mediterraneo assorbe ogni anno un terzo del turismo mondiale venendo così duramente danneggiato dall’inquinamento che questa industria porta con sé. Dalla ricerca emerge che durante l’alta stagione nelle isole mediterranee la popolazione si moltiplica fino a 20 volte e che tra giugno e agosto sulle eccessivamente battute spiagge turistiche si accumulano mediamente 330 rifiuti per 1.000 m2 al giorno, 5,7 volte in più della bassa stagione. I dati che più mi impressionano sono tuttavia i seguenti: è il turismo a produrre l’80% dell’immondizia che si accumula sulle spiagge delle isole mediterranee in estate, di questa il 94% è composta da plastica. Si aggiunga la plastica proveniente dai rifiuti di attività costiere come la pesca e la navigazione: nel mediterraneo ogni anno è come se venissero scaricate 53 mila tonnellate di plastica
9, che finiscono dritte nei ventri dei pesci che alcuni sapiens amano mangiare. A molti però pare non importare, forse non ci credono perché non vedono la plastica nei loro filetti di cernia? Forse non sanno ancora che la plastica è finita anche nei ventri delle mammifere sapiens, nelle loro placente per esattezza?
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Vi dicevo che volevo iscrivere le criticità del ponte nei guai della Terra tutta. È per questo che riporto questi dati generali che ci aiutano a capire in che stato versano i nostri amati mari. Ora la prenderò proprio alla lontana, perché filosoficamente questo governo sottovaluta troppo i concetti di tempo e spazio, ma noi non ce lo possiamo più permettere. Occorre mettere a fuoco che non siamo più nell’Olocene, l’era geologica che fino al XX secolo ha manifestato una certa stabilità. Ne siamo fuori non per fattori esogeni, che so tipo Nemesi la stella gemella del sole che si avvicina causando una pioggia di meteoriti… se l’Olocene è evaporato è a causa dei troppi fuochi che il capitalismo sapiens ha appiccato per illuminare la sua strada verso lo sviluppo, il famigerato progresso. Quando l’Olocene è iniziato, 11.700 anni fa, eravamo sei milioni di persone, poi la popolazione umana è quadruplicata, passando dai 1.6 bilioni di persone del 1900 ai 8 miliardi odierni.
Il cambiamento climatico è iniziato quando la vita umana sulla Terra ha iniziato a crescere vertiginosamente grazie al confluire di progressi medici, agricoli e industriali (Diamond 1997; Cregan-Reid 2020) a partire proprio dal periodo storico in cui abbiamo avviato la Grande Accelerazione umana, il XVIII sec., secolo in cui è nato l’
homo sapiens e ha cominciato a riprodursi come
homo oeconomicus. L’impatto di quest’
homo sul pianeta ha spinto molti scienziati a parlare di
Antropocene (Steffen
et al. 2007), altrove si parla invece di
Capitalocene.
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La seconda espressione incontra maggiormente il mio favore, perché ha il merito di portare alla luce il complesso intreccio di fattori che ha condotto il
sapiens a diventare
homo oeconomicus e il capitalismo a imporsi come economia egemone: senza le tecnoscienze occidentali, agricoltura intensiva e produzione industriale sarebbero mai esistite? Senza le combinazioni di questi tre fattori, vi sarebbe mai stato il capitalismo così come si è storicamente articolato? Eppure, posso accettare anche Antropocene, perché́ in fondo il capitale lo ha fatto l’uomo, nello specifico il maschio bianco nord-occidentale.
La sesta estinzione di massa avviene ai tempi del Capitalocene, che sono i tempi della grande accelerazione. Purtroppo “l’attuale tasso di estinzione delle specie è 10.000 volte superiore al tasso naturale o “di fondo” e “dal 1996 a oggi il numero totale di specie animali note minacciate è aumentato da 5.205 a 8.462”.
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Su questi dati e su come vengono costruiti e raccolti c’è dibattito, c’è chi sostiene che le stime dello IUCN siano a ribasso perché tengono in maggior conto le estinzioni tra vertebrati sottovalutando gli invertebrati, in particolare i marini: “Ad esempio, ci concentriamo sui molluschi, il secondo più grande phylum per numero di specie conosciute e stimiamo che, dal 1500 d.C. circa, tra il 7,5 e il 13% (150.000-260.000) di tutti i più di 2 milioni di specie conosciute si sono già estinte, gli ordini di grandezza sono superiori di 882 (0,04%) a quelli della Lista Rossa”.
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Oppure possiamo pensare a cosa è accaduto alle nostre parentele cetacee. L’Uomo ha ridotto di un quintuplo la popolazione di balene
14 mentre la popolazione umana è aumentata del quadruplo raggiungendo gli otto miliardi: la correlazione tra Sesta estinzione di massa e Grande Accelerazione Umana è un triste dato di fatto.
Non è solo Messina dunque, non è solo Milazzo a essere “sito di interesse”, il pianeta tutto ci chiama a praticare forme di cura basate sulla sottrazione, non sull’addizione: il limite delle emissioni doveva essere di 280 parti per milione (ppm) e noi siamo oggi a 419,13.
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Non solo a Messina, ma anche in Val Susa, ovunque non ci possiamo permettere di aggiungere, possiamo solo cercare di rigenerare l’esistente. Dunque
no ponte perché basta cemento. Pare che il cemento sia dopo l’acqua il materiale più usato sul pianeta e c’è chi ha calcolato che “se l’industria del cemento fosse un paese, sarebbe il terzo più grande emettitore di anidride carbonica al mondo con un massimo di 2,8 miliardi di tonnellate, superato solo da Cina e Stati Uniti”.
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Ora direi che possiamo interrompere questo flusso di consapevolezze, so che possono intristire, è un momento necessario quello della contemplazione della devastazione ecosistemica, ma ha senso solo se impariamo insieme a trasformare la tristezza in rabbia e amore. Vorrei dunque provare a mettere in circolo le ragioni della passione. Devo rendervi conto del titolo scelto,
Il compost da a/mare, del perché il mio no al ponte è un si alla giustizia riproduttiva multispecie. In gioco per me non c’è solo l’opposizione ma anche l’affermazione. Rivendico l’affermazione della bellezza di ciò che qui già è, la bellezza di un’evoluzione marina di cui noi che ci diciamo sapiens non siamo che una recente materializzazione. Potrei chiederci di pensare con delfini e balene, o con i milioni di uccelli che migrano proprio qui a Capo Peloro dall’Africa all’Europa. Lo Stretto non ha bisogno di nessun ponte, se abbandoniamo la postura androcentrica e pensiamo con gli uccelli e i molluschi, qui il collante dei continenti c’è già ed è proprio il compost marino che ruspe e gru distruggerebbero. Questo compost marino senza microscopio facciamo fatica a vederlo, dobbiamo partire da una contemplazione che sia già immaginazione. Dal momento che siamo in spiaggia, ci basta voltare lo sguardo e fare questo sforzo immaginativo insieme
17: la vedete lì la nostra prima fonte di ricchezza, i gioielli del mare che luccicano facendoci respirare?
Quammen definisce le diatomee come “una specie di alghe unicellulari, ciascuna racchiusa in una parete di silicio simile a un guscio” e come “microrganismi fuori dall’ordinario con un aspetto geometricamente preciso” che “contengono cloroplasti, il che vuol dire che vivono di fotosintesi, come le piante”.
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Le diatomee sono il compost da a/mare, vale a dire il fertilizzante della terra che viene dalle acque, ma sono anche la nostra foresta marina, il nostro polmone blu. Si dice facciano parte del plankton, l’insieme di micro-organismi che non vediamo a occhio nudo se non quando insieme esplodono in un
bloom, una fioritura di un azzurro intenso ma leggero che scalda il cuore. Studiando le diatomee capiamo come ci converrebbe molto di più fare del compost, non del cemento, la sostanza più diffusa al mondo dopo l’acqua. Vi racconto il loro ruolo negli ecosistemi per questo: per me quella delle diatomee è una biologia che diventa filosofia etico-politica che mi auguro possa ri-orentarci a fare parentele, cioè fare mondi in cui la misura non sia l’uomo ma l’humus, la materia non il cemento ma il compost, la logica non quella dell’addizione ma della sottrazione.
Si dice che il polmone terrestre sia verde e risieda in Amazzonia, ma gli ecosistemi non sono chiusi, questo mondo si fa simpoieticamente non autopoieticamente.
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Gli alberi da soli non fornirebbero tutto l’ossigeno necessario alla vita, dovremmo forse dire che l’Amazzonia nel suo complesso è un “polmone verde/azzurro/bianco/sabbia” e che le diatomee sono le sue amazzoni.
L’Amazzonia è un polmone azzurro: non solo per il Rio delle Amazzoni, che è il fiume più imponente sulla terraferma, non al mondo. Il fiume più imponente al mondo si libra nell’aria ogni giorno, è un fiume volante dieci volte più grande del Rio ed è prodotto dalla foresta amazzonica nel suo insieme. Le radici degli alberi risucchiano l’acqua dal terreno, l’acqua scorre nel corpo delle piante e dalle loro foglie evapora: evapotraspirazione. Per i soli alberi si è calcolato che ciascuno di loro può emettere mille litri di vapore acqueo, e che in totale la foresta pluviale emetta al giorno almeno 20 miliardi di metri cubi (tonnellate) d’acqua.
L’Amazzonia è un polmone color sabbia: il terreno della foresta amazzonica è così fertile perché́ ogni anno viene rigenerato dalle tonnellate di sabbia che si spostano dai deserti africani. La sabbia della Dancalia, tra le zone più̀ aride del pianeta, nutre con gli scheletri delle diatomee la foresta pluviale più̀ ricca di possibilità̀ di vita. Le diatomee, inizio e fine e dunque forse motore del ciclo, queste minuscolissime amazzoni che trasportano fosforo, azoto e potassio, arrivano morte stecchite sul suolo della foresta fluviale ma sanno che di questa loro morte la loro specie vivrà. Le diatomee vivono e muoiono con la Foresta Amazzonica e con la Dancalia, ma i loro scheletri devono percorrere ancora molti chilometri prima di ricongiungersi ai corpi delle loro sorelle vive. In questo ciclo, vive o morte che siano, le diatomee garantiscono la rigenerazione della vita sul pianeta, arrivando a produrre dal 20% all’85% dell’ossigeno.
L’Amazzonia è un polmone bianco: la ricca vegetazione amazzonica, rimpolpata dalle diatomee, drena acqua dal terreno, la lascia traspirare e così l’acqua diventa il fiume che galleggia nell’atmosfera terrestre sorvolando gli alberi, veloce, possente: se fosse sulla terraferma sarebbe più grande di qualsiasi fiume esistente. Il fiume volante si dirige verso la Cordigliera delle Ande, che lo costringe a svoltare verso Sud arrivando fino al Perù, dove si riversa sotto forma di pioggia sul terreno. Abbiamo osservato dallo Spazio il suo scorrere maestoso e il suo riversarsi imperterrito su terre che senza il suo passaggio sarebbero semidesertiche. Su queste terre il fiume volante si fa laghi, torrenti, la sua acqua dolce scorre ancora per chilometri e chilometri, accumula sedimenti e infine sfocia nell’Atlantico, si mescola all’acqua salata. Così l’acqua torna all’acqua e nutre le diatomee nell’Oceano, e il compost si rigenera.
20 Gli scheletri di diatomee del deserto si spiegano solo in un modo: lì dove ora ci sono i deserti africani milioni di anni fa vi era il mare.
Gli alberi delle foreste pluviali assorbono molta anidride carbonica, ma in questo compito, diventato sempre più arduo da quando i
sapiens hanno aumentato in maniera esorbitante le emissioni, sono sostenuti da queste alghe unicellulari apparse nel Cretaceo, circa 145 milioni di anni or sono. Si contano quasi 70mila specie di diatomee (fossili compresi), ma non sono poi tanto sicura sia utile classificarle per specie. Le diatomee sono simili alle piante, hanno la clorofilla e tutte le carte in regola per la fotosintesi, ma sono anche simili ad animali, o meglio, queste alghette poliedriche sono compostiste: una potente combinazione di geni presenti in animali, piante e batteri. Abitano sia le acque dolci che quelle salate, ma ovunque preferiscono stare a galla, in cerca di sole, necessario per la fotosintesi. Si nutrono della silice presente nell’acqua così da divenire più pesanti e accelerare la loro discesa sui fondali, dove depositano carbonio. Con il riscaldamento globale però le acque diventano più acide e c’è meno silice: scarseggia il cibo per queste amazzoni in miniatura che diventano sempre più leggere delle loro compagne di 100 anni fa.
Mi chiedo se alle balene e ai protozoi saranno comunque utili queste diatomee smagrite e un po’ indebolite. Perché le diatomee rigenerano noi producendo più di un quarto dell’ossigeno che respiriamo ma sono, come il resto del plancton, nutriente essenziale alla base della sopravvivenza di interi ecosistemi, marini, di acqua dolce, soprattutto
terrestri. Le diatomee sono il fertilizzante della foresta amazzonica, con lei si fanno
humus e compost, sono
divinità ctonie per eccellenza
. Morendo danno vita a uno spettacolo che i biologi chiamano “neve marina”, a migliaia sprofondano lentamente dalla superficie sui fondali ma a differenza della neve non si sciolgono, rimangono lì, fin quando il fondale non diventa terra emersa, come la Dancalia, fin quando il vento non le porta via con sé, verso altre terre da fertilizzare.
Quanto lavoro rigenerativo per un organismo unicellulare che non supera i 200 millesimi di millimetro! Trovo nella diatomea quello che trova nell’ameba: “compagna eccezionale capace di cooperare attraverso distanze spaziali e temporali grandissime”.
21L’amazzone diatomea è la figurazione delle parentele postumane, è con lei che voglio stare ed è con lei che voglio pensare.
Pensiamo al processo di riduzione della taglia cellulare nel corso della riproduzione clonale delle diatomee: man mano che una popolazione di diatomee cresce in numero tramite riproduzione cellulare a ogni divisione si verifica una riduzione della dimensione media delle cellule nella popolazione. Il processo è irreversibile e porta le cellule a raggiungere una dimensione minima in cui smettono di riprodursi.
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Quando la popolazione si sarà ridotta a sufficienza allora passerà alla riproduzione sessuale per generare individui con DNA in doppia copia e dimensioni massime, poi il ciclo ripartirà di nuovo verso la riduzione in modo tale da permettere alle diatomee di prosperare come specie alla pari tra altre e di non saturare le acque a svantaggio di altre forme di vita. Le diatomee, compost della foresta amazzonica e nostra preziosa fonte di ossigeno, scelgono insieme come e quanto riprodursi, si accordano nel variegato mondo del fitoplancton e, per non farla da padrone, quando è il caso si ritirano. Interessanti modeste testimoni di alternative al sesso riproduttivo, le diatomee smentiscono il mito delle specie in lotta per la sopravvivenza, suggerendoci che vivere bene non vuol dire “crescere all’infinito”, “vivere per sempre”, “essere immortali”, bensì trovare di volta in volta in base alle circostanze l’accordo più conveniente al bene comune.
Questo accordo potrebbe anche risuonare come un elogio della lentezza, due note distensive che concedano alle radici il tempo di spaccare il cemento e alle diatomee lo spazio per fare compost sul fondale marino. Una possibile colonna sonora è qui di Levante, è come se le diatomee ci stessero canticchiando il ritornello de
Lo stretto necessario: acqua e sole sono lo stretto necessario che dobbiamo difendere.
Non ci serve alcun ponte, la ricchezza sta tutta qui oggi, qui dove sembra che il mare finisce e il suolo comincia, qui dove irrompe la frontiera transpecie e transgenere della vita fatta di una materia tanto umida quanto collosa, tanto fluida quanto viscosa. Lì sulla riva, dopo aver migrato di notte, si depositano milioni di diatomee che, placide, si uniscono ai funghi per secernere un biofilm capace di funzionare al contempo come compost per le piante alofile, cibo per uccelli e cemento per le fasce costiere. In mezzo ma ai margini, i litorali sono ecosistemi-approdi organico-inorganici dove la differenza non funziona come principio gerarchizzante-inferiorizzante e la giustizia riproduttiva multispecie fluisce senza bisogno di essere spiegata. E forse noi non sapremo mai se le diatomee hanno deciso in una o più assemblee, insieme a funghi e virus, di mettersi così pazientemente e alacremente a rigenerare mo(n)di di esistenza, o se si sono semplicemente accorte insieme che redistribuzione e cooperazione facevan bene non solo a loro stesse, ma al bene comune. Forse non sapremo neppure come fanno le diatomee ad accordarsi con le correnti marine per eseguire la fotosintesi di giorno e terraformare di notte, per stoccare carbonio e nutrire le balene, perché scelgono di riprodursi di meno a vantaggio della riproduzione di altre specie…eppure sappiamo che avviene. E tanto mi basta per desiderare di prender parte a un tale favoloso processo simpoietico,
una parte contro il ponte e dalla parte delle parentele.