Anni fa, quando finalmente mi decisi a leggere Le anime morte di Gogol’ (uno di quei libri fondamentali che, fin dal titolo celeberrimo, appartengono ormai per antonomasia alla terminologia burocratica o politica o semplicemente al luogo comune e che pertanto si suppone sempre di aver già letto in un imprecisabile passato) restai colpito, pur senza scorgerne subito la ragione, dal seguente passo. Capitolo primo, parte seconda, nell’edizione Arnoldo Mondadori 1973, traduzione di Serena Prina:
“Di chi è questo bosco?” gli fu risposto “Di Tentètnikov”; quando, uscita dal bosco, la strada si distese attraverso i prati, accanto a macchie di tremoli, salici e vetrici giovani e vecchi, in vista di alture che si stendevano lontane, e su due ponti varcò in punti diversi il medesimo fiume, lasciandoselo ora a destra, ora a sinistra, e quando alla domanda: “Di chi sono questi prati e i terreni irrigui?” gli risposero “Di Tentètnikov”.
Tutta la terra, a perdita d’occhio, gli alberi, i campi coltivati a frumento, grano, segale, orzo, le isbe stesse, l’intero villaggio con la casa padronale e l’antica chiesa, appartengono a un solo uomo, che tuttavia li sconosce e li trascura, abbandonando la gente del luogo a una triste e grama condizione. Cosa ricorda questo brano, questa situazione, questo grande scenario naturale e antropico tutto riconducibile a unica persona, peraltro rea nei suoi confronti e di ogni suo abitante di un peccato sacrilego contro il creato e il lavoro, contro la vita stessa? Ma certo, è Verga! Lo splendido incipit de La roba in Novelle Rusticane, del 1882, cioè quarant’anni dopo la pubblicazione de Le anime morte:
“Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso lì come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria. – Qui di chi è? – sentiva rispondersi: – Di Mazzarò” (Giovanni Verga, Tutte le novelle, volume I, Arnoldo Mondadori, 1942).
Il viandante verghiano prosegue il cammino, sempre guardandosi intorno e interrogando coloro che incontra sulla sua strada:
“E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembravano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: – E qui? – Di Mazzarò”. Ogni cosa, ogni bestia, le greggi, le vigne, “un uliveto folto come un bosco”, le mura finanche, e si direbbe gli stessi uomini e le donne, appartengono a Mazzarò. “Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli camminasse sulla pancia”.
Un’enorme ricchezza, dunque, ma interamente espropriata alla natura e al lavoro degli uomini e ai loro bisogni, al punto che la terra è divenuta, fuor di metafora, il corpo stesso del latifondista, fonte di continuo accrescimento per lui e di contro d’inesorabile miseria per tutti gli altri. È questa terra espropriata, ridotta a roba, a fondamento del vivere e financo dell’esistere che accomuna, per certi aspetti, Gogol’ e Verga: più cupamente il secondo, in realtà.
Se il siciliano, con sommo pessimismo materialista, conclude la sua novella con la disperata invocazione del Mazzarò morente : “roba mia, vientene con me!”; il russo (ma forse oggi sarebbe il caso di definirlo l’ucraino) indulge ancora una sorta di rammarico nostalgico e di inconsolabile cruccio etico:
“Non sono forse stato uno sciocco finora? La sorte mi aveva destinato a essere il possessore di un paradiso terrestre, e io mi ero rassegnato a scribacchiare carte morte”.
La sciocchezza consiste in una insolvenza morale: l’incapacità come proprietario di assolvere ai doveri verso la terra e gli uomini che vi lavorano, come “giudice, amministratore, tutore dell’ordine” che sovraintende con sapienza a cose e fatti reali, e non come un burocratico e cartaceo funzionario.
Il Mazzarò verghiano ha tesaurizzato con cieca avarizia una ricchezza morta, trasformando un rigoglioso paradiso in uno spietato inferno per sé e ancor di più per tutti gli altri.
L’accostamento, in qualche modo vertiginoso, tra Gogol’ e Verga s’inserisce peraltro in un più vasto (e non meno vertiginoso) parallelo tra la letteratura russa e quella siciliana. Orio Vergani, interrogandosi sulle ragioni del lungo silenzio della letteratura siciliana fino alla nascita della nazione italiana e all’affermazione di Verga, soprattutto, e poi di Pirandello, lo accostò per affinità elettiva all’analogo silenzio della letteratura russa, almeno fino all’Ottocento, ossia a Gogol’ e Turgheniev (1). Il paragone, ovviamente, regge fino a un certo punto e col beneficio dell’inventario, e alla sua perentoria asserzione si potrebbero muovere diverse e convincenti obiezioni, sia nel versante russo che in quello siciliano.
Resta il fatto, tuttavia, che l’accostamento letterario tra la Sicilia e la Russia ha un suo fascino lusinghiero, ancorché arbitrario.
Dimostrarlo è impresa ardua, e lo stesso Vergani d’altronde non va oltre un accenno vaghissimo quanto suggestivo.
Ma a scrutare sotto questa illuminante prospettiva i testi, o almeno certe loro particolari peculiarità, si possono fare alcune stimolanti e seducenti scoperte.
Ovvero inganni.
Turgenev e Pirandello o Dostoveskij e Fiore, per esempio. O magari Bulgakov e Joppolo. O ancora Gor’kij e Quasimodo, con qualche forzatura, certo.
E forse si potrebbe pensare anche un’affinità spirituale fra il popolo russo e quello siciliano, sebbene non senza azzardo e soprattutto non senza approssimative generalizzazioni.
In letteratura si potrebbe citare, ancorché impropriamente, l’accidia dell’Oblomov di Gončarov, così affine, grosso modo, alla sicula lagnusia. Ma più in generale si potrebbe alludere all’affinità tra le anime, o almeno riguardo a taluni comportamenti, dei due popoli.
L’anima russa, secondo l’analisi schematica che ne fece Jules Legras nel suo “L’âme russe” del 1934, risulterebbe soprattutto dall’influenza del paesaggio e del clima nonché dal prevalere della cultura straniera, e consisterebbe (tra l’altro) in un fatalismo predisposto alla fantasticheria, in una certa indolenza e passività, in una tendenza a “sporcizia, ingegnosità, orgoglio”, scriveva Tommaso Landolfi in una recensione al libro di Legras (in “I Russi”, Adelphi, 2015, p. 37).
Tutti tratti comuni a quella che potremmo definire l’anima siciliana. Ma altrettanto comuni, nella loro genericità, all’anima di tanti altri popoli.
Ma questo è appunto il rischio che si corre necessariamente a fare certe comparazioni vaghe quanto ovvie e magari corrette, frutto di una “sconsolante e astratta classificazione”, come pare allo scettico Landolfi, il cui “difetto è alla radice”.
(1) Si veda al riguardo il mio “La maschera e il lutto: la Sicilia tra omologazione e anomalia” in Kaléghé anno VI numero 5, settembre/ottobre 1998.