Se c’è un termine che in questi giorni del virus ricorre fino a essere messo in discussione è quello del “corpo”. E’ il corpo estromesso dalla vita, quello degli ammalati, dei guariti, quello dei messi in quarantena, quello del vorrei uscire ma non posso. E in questa deflagrazione, mai come prima forse, possiamo riflettere sull’importanza di tutto ciò che quel termine significa. Di fatto è una privazione quella che viviamo, è un’assenza che dovrebbe indurci a considerare anche un altro aspetto: quello dell’attesa, un cosciente stato di sospensione. Con un’ironia che solo il caso può regalarci, a questa privazione del corpo si accompagna l’esaltazione del virtuale e tutto ciò che è “a distanza”: lezioni scolastiche, universitarie, visite virtuali a musei e mostre d’arte soprattutto.
Nel momento massimo della perdita del corpo che verso la riconsiderazione dell’importanza di quest’ultimo dovrebbe spingere, quella del virtuale è proposta, invece, come soluzione senza limiti, senza macchia. Non può essere così ovviamente. Abbiamo imparato, in questi ultimi tempi e forse senza neanche accorgercene, cos’è la geometria, quella del cerchio in particolare, quando hanno ordinato che la distanza fra individui dovesse essere minimo di un metro lineare. Quanto è un metro? Un mio braccio? E’ il tuo braccio? Quanti passi? Per la prima volta, dopo molto tempo, ci siamo rivisti in modo diretto nel rapporto con il nostro corpo e con quello dell’altro. La chiamano distanza sociale ma, in effetti, è prima di tutto intimamente umana, dell’essere umano in cui quel verbo espone e dovrebbe ricordare, ora più che mai, un inconcepibile, inenarrabile infinito. A ben vedere la situazione attuale propone, o meglio ripropone, il tema della nascita anzi, ancora una volta, della rinascita. La cultura rinascimentale, infatti, con singolare forza narrativa e inventiva, aveva chiuso l’uomo in un cerchio cercando di dimostrare la sua infinità ovvero la sua perfezione, anche quella vicina a Dio. Il cerchio di distanza, inclusivo di ogni parte del corpo, invece, è oggi messo in discussione da un’imperfezione meno eterea e geometrica, da un virus che esiste ma è invisibile all’occhio e forse per questa ragione l’improba leggerezza di chi non indossa le mascherine sanitarie sui mezzi pubblici o nei locali. Ancora una volta siamo costretti a confrontarci con l’invisibile ma ce ne freghiamo spesso; ancora una volta ci troviamo davanti a una scelta: quella in cui dobbiamo dimostrarci in tutta la nostra umanità imperfetta, insensibile condizione di un essere di fronte al suo corpo nudo, alla sua memoria nuda, come in uno specchio altrettanto nudo e deflagrato.
Questa riflessione che ha chiamato parole come essere umano, Rinascimento, morte, corpo, malattia, memoria, reale, virtuale e così di seguito, aiuta molto a guardare con un’ottica alternativa al mondo dell’arte, della tutela e delle mostre. Sono proprio queste ultime, infatti, il terreno, dove forse anche più concretamente, è possibile valutare quel fenomeno diffuso che è il rapporto fra società e cultura, quello che la vulgata vorrebbe essere diventato in questi ultimi anni più fluido in forza delle tante riforme del Mibact e delle mutate e mutanti forme della comunicazione. Può apparire contraddittorio, anche addirittura paradossale, ma è proprio nella volatilità temporale di una mostra (dove spesso convergono ingenti risorse economiche anche pubbliche) che si può esplicitare non solo l’attuale modo di concepire l’arte (il suo ruolo nella società) e il nostro modo di comunicarla ma anche quale idea abbiamo dell’altro, di coloro cui una mostra, ad esempio, si rivolge. Ed è proprio in questa considerazione dell’altro e dell’altrove che possono nascondersi le immagini, i pensieri più discutibili a volte, addirittura, aberranti.
Un caso emblematico in tal senso è quello della mostra, oramai conclusasi, dedicata ai cinquecento anni dalla morte di Raffaello Sanzio (Urbino, 1483-Roma, 1520) presso le Scuderie del Quirinale. Molti ne hanno parlato e scritto, si ha consapevolezza di questo, ma alcuni aspetti appaiono tralasciati dai più e per ciò vale soffermarsi brevemente. Utile rilevare che le opere del celebre pittore urbinate sono talmente belle da nobilitare anche una stalla e far dimenticare qualunque arredamento/allestimento in essa vi sia. Nel tentativo di dare originalità alla mostra, i curatori hanno cominciato dal titolo dove, contrariamente alla consuetudine biografica, l’anno di morte precede quello di nascita del celebre pittore e architetto. E così la mostra è stata pure organizzata: si comincia dalla prima sala al primo piano con le ultime opere e si termina al secondo piano con le prime. A dispetto delle motivazioni più lambiccate e pretese di originalità, la nuda verità, nella scelta di quel titolo e allestimento, emerge subito a chi conosca lo spazio delle Scuderie e il loro uso espositivo. Nel corso degli anni si è costatato direttamente che il visitatore/cliente/acquirente (anche nella scelta di questa definizione c’è l’indizio del modo di concepire un luogo espositivo/narrativo) di una mostra alle Scuderie arriva stremato alla fine di quello che è un cammino narrativo e cioè al secondo piano dove, in forza di un criterio più tradizionale, avrebbero dovuto essere esposte le opere più recenti (e famose). Queste ultime, il vero “piatto forte”, invece, sono state “servite” subito, ad inizio del percorso. Nessuna reale motivazione scientifica, solo l’applicazione di accorgimenti tipici del mondo pubblicitario dove i prodotti da vendere sono collocati ad altezze strategiche, diverse a seconda del potenziale destinatario (le merendine, con le loro spesso coloratissime confezioni, ad altezza dei bambini e così via). In questo accorgimento non c’è nulla di una considerazione sull’essere umano, tutto del visitatore come acquirente alla stregua di un supermercato, appunto, o di un fast-food dove, di certo, non si va per imparare. E appare inadeguato, in tutto ciò, pure il parallelo fra un allestimento e il principio giornalistico della notizia flash o della notizia collocata nelle primissime righe dell’articolo.
Una mostra su Raffaello forse avrebbe dovuto celebrare l’essere umano, l’umanità, non l’uomo inteso nella sua veste di consumatore così come accade in non-luoghi reali e virtuali alcuni dei quali qui già citati. Forse, però, si voleva la mostra proprio come un “non luogo a procedere” là dove, la pur sempre legittima fuga del visitatore, (così come quella del lettore di un libro) è stata elevata alla dignità di un principio espositivo. E non solo.
Il rapporto fra reale e virtuale, fra il corpo, la morte e la memoria, emerge in modo dirompente là dove, nella stessa mostra, è stato deciso di proporre la tomba di Raffaello a dimensioni quasi reali (https://www.ilgiornale.it/news/cronache/raffaello-che-non-ti-aspetti-1880617.html consultato il 4 ottobre 2020), e si sottolinea questa parziale corrispondenza legata alle misure. Perché riprodurre una costosissima finzione quando l’originale è nel Pantheon che dista in linea d’aria dalle Scuderie solo poche centinaia di metri? Perché questo supplizio della finzione che ferisce tanto più che esso sottintende l’esclusione più ampia della città? A voler essere tecnici, quella nella mostra, era una sezione architettonica, parola che farebbe vibrare chiunque abbia un minimo di sensibilità da architetto (e Raffaello lo fu anche). A tal proposito appare utile ricordare un interessante esempio (http://www.americanaexotica.it/beni-culturali/san-carlo-alle-quattro-fontane-lugano-svizzera-1999-2003/ , consultato il 10 agosto 2020) in cui fu usata proprio l’idea di sezione: è l’esperienza progettuale attuata dall’architetto Mario Botta nel 1999 per un altro centenario, quello di un altro architetto Francesco Borromini (1599-1667) (http://www.americanaexotica.it/beni-culturali/san-carlo-alle-quattro-fontane-lugano-svizzera-1999-2003/ , consultato il 10 agosto 2020). Un architetto contemporaneo, quindi, che “progetta”, attraverso l’idea di sezione, il racconto di un altro architetto. Indipendentemente dal valore dell’esperienza Botta/Borromini, viene da chiedersi, quindi, quali siano state le ragioni compositive e storico-critiche per cui sia stato scelto, nella mostra dedicata a Raffaello, proprio quel riquadro e non un altro più grande o più piccolo.
L’impressione è che in quest’ultimo caso abbia prevalso solo una ragione pratica. Hanno selezionato il ritaglio sulla base delle dimensioni dello spazio delle Scuderie: quello che entrava si metteva, il resto via. Sembra in ciò di rivivere la vicenda del celebre Procuste «[…] leggendario brigante greco che assaltava i viandanti e li stendeva su un letto, stirandoli a forza se fossero troppo corti, amputandoli se sporgenti da esso» (http://www.treccani.it/vocabolario/letto2/ consultato il 10 agosto 2020).
La riproduzione parziale di una sezione con la tomba del pittore è manchevole nel far percepire all’osservatore la spazialità (di pianta e sezione) del Pantheon, dato questo che non sarà sfuggito allo stesso Raffaello. E’ difficile, a tale proposito, dimenticare un celebre disegno che l’artista dedica proprio alla spazialità del Pantheon. In tutto questo sembra di scorgere un ulteriore tradimento del pittore, come giustamente e per altri versi ha osservato anche Vittorio Emiliani (https://emergenzacultura.org/2020/05/13/vittorio-emiliani-raffaello-tradito-come-pioniere-della-tutela-di-roma-antica/ consultato il 4 ottobre 2020). E così, ancora una volta, il rapporto (e una esposizione di opere tesse una relazione in tale direzione) fra pittore e coloro che volevano conoscerlo come visitatori della mostra fa venire in mente la vicenda dei carciofi di Caravaggio e di quando questi fu trattato con scarso rispetto da quel ragazzo d’osteria, «becco fottuto», che i carciofi gli aveva servito (Tomaso Montanari ricorda con particolare attenzione questo evento: https://www.raiplay.it/video/2017/02/LA-VERA-NATURA-DI-CARAVAGGIO-afcd80b0-d05e-4532-a0b5-1270430a0bf7.html , min. 39:39, link consultato 10 agosto 2020). Ancora una volta, quindi, come sempre più spesso accade in questi ultimi tempi, dietro un allestimento, un iter narrativo, si nasconde un’idea, non sempre ad ampio spettro, che un curatore ha dei lettori di quel percorso.
La “sezione architettonica”, pertanto, smette di essere un tema progettuale e anzi, a dire il vero, neanche prova a esserlo. E che sia mancato il piglio del pensiero architettonico lo dimostra anche la scelta dei colori per fare da fondale ai dipinti del maestro urbinate. Non varrebbe soffermarsi su questa nota di colore se non fosse che quella tinta di fondo, e con essa l’atteggiamento che lo attua, è solo l’ultimo di una lunghissima serie di recenti casi espositivi. Lo si vede, oramai, quasi ovunque quel grigio, barricato in un solipsismo autoreferenziale. A dire il vero, nella mostra dedicata a Raffaello, il grigio a fondale delle opere pittoriche, si presenta più vario che altrove ma ancora comunque sotto poche e diverse sue tonalità. In altri casi domina, invece, un grigio monotonale, quel grigio-topo che ricorda certe dozzinali scaffalature messe ad arredare con impudica infelicità molti luoghi pubblici. Sarà la moda del momento, forse, dietro la quale si nasconde, ancora una volta, la mancata volontà di progettare, di fare ricerca, in quella che, di fatto, è l’esplorazione, lo si ribadisce, del rapporto fra opere d’arte, spazio della mostra e visitatori. Indimenticabile, a questo proposito, è il grigio della parete di fondo usato nel pure recente, nuovo, fin troppo strombazzato allestimento della sezione seicentesca nella Galleria Barberini a Roma (visitata a fine gennaio 2020). In quella che alcuni chiamano la ricerca di una tinta neutra, la scelta è ricaduta su quel solito grigio, quel democristianissimo, usato sicuro anche là dove l’opera da esporre è di Caravaggio il quale, in materia di colori di fondo, ha ancora molto da insegnare (a patto che si abbia conoscenza e sensibilità per ascoltarlo).

Ultima nota, infine, solo apparentemente secondaria, è quella dell’accessibilità alla cultura. Ancora oggi essa è un problema spesso irrisolto e, in alcuni casi, neanche posto come obiettivo di un evento culturale. Si dovrebbe familiarizzare con un concetto: gli spazi lasciati vuoti finiscono, quasi sempre, con l’essere colmati dai centri commerciali (e loro logiche comunicative) e dalla peggiore produzione televisiva. Il catalogo della mostra su Raffaello (altro strumento attraverso cui si attua il rapporto con il pubblico e soprattutto il tempo), ad esempio, ha un prezzo che, pure quando scontato (circa 44 euro), non è accessibile alla maggior parte dei cittadini (la casa editrice ha comunicato, alla data di redazione di queste righe, che non è in vendita una versione digitale meno costosa del medesimo). Sarebbe stato meglio che i molti denari impiegati per la finzione della tomba fossero stati investiti in tante copie del catalogo da donare a tutte le biblioteche nazionali distribuite su tutto il territorio italiano. Forse si è ancora in tempo, adesso più che mai, per un cambiamento; sarebbe il caso, infatti, di agire in modo che il contenuto di quella e altre mostre raggiunga sempre il più vasto pubblico possibile. Non è anche a questo che dovrebbero servire le mostre?

È una sscèna, per dio, propio una sscèna.
Ma ttutte ar tempo mio s’ha da vedelle!
Pe quattr’ossacce senza carn’e ppelle
s’ha da pijjà la ggente tanta pena!
E ttutti fanno sta cantasilèna:
È llui: nun è: ssò cquelle: nun zò quelle:
è Rraffaelle: nun è Rraffaelle…
E ttutt’er giorno la Ritonna è ppiena.
Certo, nun dubbità, ssò ccasi serj!
Come c’a Rroma sciamancassin’ossa
tramezz’a un venti o un trenta scimiteri!
Trovi uno schertro in de la terra smossa?
Ebbè, ssenza de fà ttanti misteri,
aribbuttelo drento in de la fossa.
Gioacchino Belli ( 1 novembre 1833)