La questione dell’autonomia siciliana in materia di patrimonio culturale e paesaggistico è oggi un tema di stringente attualità, per il fatto che il sistema isolano di tutela è divenuto il modello organizzativo adottato dalle riforme delle Soprintendenze statali attuate negli ultimi anni dal Mibact.
Un’altra ragione per cui è importante fare oggi un bilancio dell’amministrazione regionale dei beni culturali, è la concreta possibilità che, a seguito della riforma costituzionale del Titolo V, si metta in moto, su richiesta di singole regioni a statuto ordinario, un processo di devoluzione “a geometria variabile” di molte competenze statali, tra cui sono molto ambite, in un’ottica di propaganda identitaria, quelle relative ai beni culturali.
Esaminando ciò che è avvenuto storicamente nelle istituzioni siciliane di tutela negli ultimi quarant’anni possiamo capire gli effetti prodotti dal “difficile decentramento” delle competenze statali in materia di beni culturali avvenuto nell’Isola, processo che, però, non è stato mai slegato dalle dinamiche regionaliste che hanno attraversato la storia repubblicana. Con il collega Paolo Russo abbiamo recentemente provato a capire la storia dell’autonomia siciliana in materia di beni culturali e a proiettarne il significato su possibili scenari futuri, in campo regionale e nazionale .
Quando, il 30 agosto 1975, con i decreti n. 635 e 637, il Presidente della Repubblica delegò alla Regione Siciliana le funzioni statali in materia di “accademie e biblioteche” e di “tutela del paesaggio, di antichità e belle arti”, non lo fece solo per dare attuazione all’articolo 14 dello Statuto Autonomistico Siciliano. Erano passati infatti quasi trent’anni senza che il massimo organo dello Stato sentisse l’urgenza di rendere effettiva quella potestà legislativa ‘esclusiva’ che lo Statuto speciale della Regione, approvato con Regio Decreto Legislativo il 15 maggio 1946 (n. 455) e convertito in legge costituzionale il 26 febbraio 1948 (n. 2), aveva assegnato all’assemblea regionale ma che il legislatore siciliano non poteva esercitare senza la delega formale delle competenze statali.
Il principio per cui era necessaria una delega dello Stato per rendere effettiva la potestà regionale in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio contenuta nello Statuto siciliano era stato chiarito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 74 del 27 marzo 1969, che respinse il ricorso di legittimità promosso, incredibilmente, da parte del Presidente della Regione Siciliana, nei confronti dell’articolo 2 bis della legge 749/1966 e del successivo decreto ministeriale che avevano dichiarato “zona archeologica di interesse nazionale” la Valle dei Templi di Agrigento, perimetrandola per la prima volta e salvaguardandola, così, dall’espansione edilizia che sarebbe seguita dopo la frana del Centro Storico avvenuta il 19 luglio 1966. Per fortuna il ricorso venne respinto e la Valle dei Templi è da allora tutelata dalle norme statali che vennero nel 2000 fatte proprie dalla legislazione regionale.
Inoltre, a conferma della competenza statale della tutela del patrimonio culturale conservato in Sicilia, nonostante quanto affermato dallo Statuto autonomistico, nei tre decenni trascorsi dal 1948 prima della delega presidenziale, nell’isola erano state mantenute le Soprintendenze statali tematiche distinte per competenze specialistiche “alle Antichità, ai monumenti e alle Gallerie”, come prevedeva la legge n. 823 emanata nel 1939.
La scelta operata da parte della Presidenza della Repubblica di trasferire alla Regione Siciliana le strutture statali della tutela, non fu, quindi, una diretta conseguenza dello Statuto autonomista ma, invece, seguì, in ordine di tempo, alla vasta riforma regionalista dello Stato, attuata con le leggi nn. 281/1970 e 382/1975, che dispose il decentramento di molte funzioni statali alle regioni a statuto ordinario.
Nei primi anni Settanta del secolo scorso, infatti, si era sviluppato un ampio dibattito culturale e politico sui temi delle autonomie locali che aveva affrontato anche la questione dell’innovazione del sistema nazionale di tutela del patrimonio culturale, prospettando una possibile riforma organizzativa tramite la regionalizzazione delle Soprintendenze statali.
Alcune regioni, come la Toscana e l’Emilia-Romagna, si avvalsero di Commissioni di studio che formularono proposte di riforma del sistema di tutela del patrimonio culturale in senso regionalista. La tesi di fondo espressa dagli esperti, tra i quali figuravano autorevoli intellettuali di matrice marxista, quali Ranuccio Bianchi Bandinelli, Eugenio Garin, Eugenio Luporini e Giovanni Previtali, fu che la tutela del patrimonio culturale dovesse essere contestuale, per cui i diversi beni culturali non potessero essere separati tra di loro ma dovessero essere protetti unitariamente entro i territori che li contenevano. Per questo si propose l’istituzione di Soprintendenze territoriali che unificassero le competenze delle esistenti Soprintendenze alle “Antichità, ai Monumenti e alle Gallerie”.
Ma il tentativo fallì perché la materia dei beni culturali rimase di competenza statale e con la legge 29 gennaio 1975 nacque il Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali che centralizzò

ancora di più il sistema statale di tutela, riorganizzato tramite il decreto presidenziale 3 dicembre 1975 n. 805, che cambiò solo il nome alle antiche Soprintendenze tematiche.
Il clima politico favorevole al decentramento regionalista sostenuto dai partiti di sinistra produsse, comunque, i decreti presidenziali del 30 agosto 1975 con cui si delegarono le competenze statali in materia di beni culturali e paesaggistici alla Regione Siciliana.
Occorre però osservare che, con una espressa disposizione, la delega presidenziale, nel trasferire le funzioni statali di tutela del patrimonio culturale e paesaggistico alle strutture regionali, al tempo ancora da istituire, assegnava e assegna tuttora alle Soprintendenze siciliane, quale compito prioritario e inderogabile, l’applicazione della legislazione nazionale di tutela. Dunque, l’assetto normativo statale, divenuto di rango costituzionale tramite l’articolo 9, doveva rimanere a fondamento delle istituzioni siciliane di tutela, anche se regionali.
In vista dell’azione legislativa dell’assemblea regionale siciliana in tema di beni culturali, il comitato centrale del PCI, come ha ricordato Andrea Carandini, in quel periodo responsabile culturale del partito, formulò una proposta di legge per l’istituzione del sistema siciliano di tutela che il partito regionale, su iniziativa di Michele Figurelli, fece propria e depositò in ARS, con le firme, tra gli altri dei deputati regionali Adriana Laudani e Giacomo Cagnes. Il disegno di legge di iniziativa comunista, ispirato al modello unificato e pluridisciplinare della tutela, fu accolto con favore dalla DC che aveva la maggioranza relativa ed esprimeva il Presidente della Regione e divenne il testo base per la formulazione in Commissione Cultura della proposta di legge che giunse in Aula nel luglio 1977.
La riforma siciliana dei beni culturali fu, senza dubbio, uno dei risultati importanti della partecipazione strategica del Pci alla stagione politica della “solidarietà autonomistica”, durante l’ottava Legislatura regionale. A partire dalle elezioni regionali del 1976 in Sicilia si era aperta infatti una nuova fase politica nella quale la spinta autonomistica assumeva un carattere fortemente innovativo e progressista: la stagione dei governi regionali di “solidarietà autonomistica” fiorita in anticipo e poi in parallelo con i governi di solidarietà nazionale, che produsse in pochi anni una mole di provvedimenti legislativi di stampo riformista e si concluse con il tragico assassinio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella il 6 gennaio 1980.
La vicenda umana e politica del giovane e illuminato Presidente della Regione barbaramente ucciso sotto la sua casa a Palermo, poco conosciuta persino in Sicilia, è stata recentemente approfondita da una bella biografia di Giovanni Grasso La “politica dalle carte in regola” propugnata e praticata dal gruppo “Politica”, gli intellettuali che si riunivano intorno a Piersanti Mattarella, ha cercato di rendere concreta l’Utopia di una Autonomia regionale portatrice di valori democratici di progresso civile, collegata con lo sviluppo sociale dell’intero Meridione d’Italia. Come disse il giovane Presidente della Regione, la Sicilia voleva avere l’ambizione di proporre soluzioni alla crisi istituzionale della Nazione e non costituire una delle cause di tale crisi. La “questione siciliana” si trasformava, tramite la nuova via riformista, da secolare problema regionale di sottosviluppo in laboratorio di politiche innovative dell’impianto istituzionale e della programmazione economica.
All’interno di tale ambizioso progetto politico prese corpo l’istituzione del sistema siciliano di tutela, con la promulgazione della L.r. n. 80 del 1 agosto 1977, che dettava le “Norme per la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale dei beni culturali e ambientali nel territorio della Regione Siciliana”, tuttora vigente, che dovrebbe essere alla base dell’ordinamento regionale delle Istituzioni di tutela.
Nascevano così le “Soprintendenze per i beni culturali e ambientali” su base provinciale e i due Centri regionali per il restauro e per il catalogo. Si provava, per tale via, a sperimentare in Sicilia il modello di tutela contestuale proposto dagli intellettuali marxisti che non era stato possibile applicare per il sistema statale.
La proposta di legge comunista conteneva anche altre importanti innovazioni metodologiche e organizzative rispetto al sistema statale di tutela, che rispondevano alle richieste di democratizzazione degli apparati burocratici provenienti da una parte dei funzionari scientifici dello Stato, tra i quali archeologi e storici dell’arte, che più sentivano l’esigenza di una condivisione delle responsabilità all’interno degli Enti di tutela. La proposta che parve più rivoluzionaria fu la nomina elettiva del Soprintendente da parte del personale tecnico scientifico.
Su questo tema si sviluppò, a partire dalla discussione in Commissione Cultura, un aspro dibattito che vide opporsi all’idea dell’elettività del Soprintendente proprio i funzionari scientifici in servizio in Sicilia, i quali, rappresentati dalla Dott. Paola Pelagatti, allora Soprintendente di Siracusa, difesero il sistema statale di selezione per concorso, con ciò volendo ribadire il potere monocratico del Soprintendente, che non poteva essere considerato, secondo loro, un primus inter pares. I Soprintendenti provenienti dallo Stato avevano chiesto il mantenimento dei loro incarichi, e in aula si giunse all’approvazione di un articolo che stabiliva lo status quo e rinviava ad altra legge la definizione delle modalità di nomina dei Soprintendenti e direttori dei Musei. Nel 1980, nella L.r. n. 116 che diede attuazione alla L.r. n. 80 del 1977, la questione fu definitivamente risolta, prevedendo la nomina dei Soprintendenti da parte dell’Assessore regionale al ramo. Così la battaglia dei funzionari statali perchè il Soprintendente mantenesse il rango e l’autorevolezza scientifica che aveva nello Stato ottenne, per paradosso, che gli Istituti di tutela regionali furono assoggettati all’esecutivo politico, in barba ad ogni principio di autonomia di questi organi tecnico scientifici. Gli effetti di questa norma si vedranno, però, solo anni dopo quando alla nomina politica della classe dirigente siciliana dei beni culturali si assoceranno forme di reclutamento della dirigenza regionale non rispondenti a criteri di competenza e merito.
Per spiegare come si sia giunti a questo combinato disposto che sta oggi minando alle fondamenta l’assetto istituzionale pluridisciplinare delle Soprintendenze siciliane per i beni culturali e ambientali delle nove province siciliane, nel libro “Utopia e impostura” passiamo in rassegna tutti gli atti degli esecutivi regionali che dagli anni Ottanta fini ai nostri giorni hanno creato una vera e propria matassa amministrativa che, alla fine, ha imbrigliato la stessa innovativa legislazione regionale di tutela e l’ha resa inoperante, come fosse ormai lettera morta.
Per dare attuazione al modello contestuale di tutela su base territoriale, il legislatore siciliano, con la L.r. n. 116 del 7 novembre 1980, dispose in modo dettagliato le competenze scientifiche e le funzioni specialistiche del “ruolo tecnico dei beni culturali”, in modo che all’interno delle Soprintendenze uniche fosse garantita la multidisciplinarietà. I direttori delle sezioni tecnico-scientifiche (ambientale, archeologica, architettonica, bibliografica, storico-artistica) dovevano essere dotati di un alto profilo specialistico e avevano piena potestà e autonomia nell’emettere il parere tecnico di loro competenza, che poi veniva controfirmato dal Soprintendente con una sigla che aveva solo carattere burocratico, non tecnico. A conclusione del processo di istituzione e concreta realizzazione del sistema regionale di tutela, venne istituita nel 2004 la Soprintendenza regionale del Mare, cui è stata assegnata la tutela dei beni culturali di provenienza subacquea. Purtroppo, però, il modello siciliano di tutela olistica del patrimonio culturale e paesaggistico, ideato con la L.r. n. 80 del 1977 e attuato con la L.r. n. 116 del 1980, che prescrive, ancor oggi, un organico specifico per i ruoli dell’amministrazione regionale dei beni culturali, è stato lentamente snaturato, svuotandolo proprio di quelle competenze scientifiche che ne dovevano essere il motore.

Tra gli anni Ottanta e Novanta, infatti, mentre si realizzavano le nuove Soprintendenze unificate, i governi regionali immisero nei ruoli dell’amministrazione il personale tecnico assunto con contratti a tempo determinato, ai sensi della L.r. 37/1985 che aveva recepito la L. 47/1985 con cui si promosse la prima grande sanatoria edilizia nazionale. Ai fini dell’espletamento delle tantissime richieste di condono da parte degli abusivi siciliani, la legge regionale aveva previsto l’assunzione pro tempore di migliaia di tecnici laureati e diplomati. Tutto questo personale, dopo molte proroghe, transitò a tempo indeterminato nei ruoli regionali nel 1991 con la L.r. n. 11, e venne immesso nei diversi dipartimenti, tra cui anche quello per i beni culturali. Così gli enti regionali di tutela si riempirono, anche in soprannumero, di architetti, ingegneri, geologi nei ruoli di dirigente tecnico e di geometri nei ruoli di assistente tecnico. Si era così di fronte ad un organico scientifico di diritto, previsto dalle leggi regionali 80/1977 e 116/1980, ed uno di fatto, creato dalle immissioni di personale del ruolo transitorio.
Questa situazione di fatto venne formalizzata nel 2000 dalla legge 10. Tutti i dirigenti tecnici della Regione Siciliana, erano circa tremila, comunque entrati nell’amministrazione, transitarono nella terza fascia del “ruolo unico della dirigenza”. In questa terza fascia della dirigenza transitò il personale proveniente dagli ex livelli VII e VIII, quindi tutto il personale laureato della Regione. Per effetto domino, con gli accordi sindacali del 2001, recepiti nei DPRS nn. 9 e 10, gli ex assistenti tecnici diplomati, V e VI livello, divennero tutti funzionari direttivi, assumendo quindi le funzioni dei funzionari laureati dello Stato. In definitiva tutto l’organico della Regione Siciliana ha perso in pochi anni un assetto istituzionale che garantisca la corrispondenza tra livelli retributivi, ruoli, profili professionali e funzioni esercitate. In tal modo sparirono le dotazioni organiche di ciascun Assessorato e con loro venne soppresso di fatto il ruolo tecnico dei beni culturali.
Non vennero però soppresse le leggi regionali 80/1977, 116/1980 e 17/1991 e negli stessi mesi del 2000 nei quali veniva approvata la legge 10, l’assessore bandì i concorsi per i ruoli tecnici dei beni culturali, previsti dalla legge 8/1999, istitutiva dell’ultima pianta organica dell’assessorato regionale dei beni culturali. La matassa siciliana continuava a ingarbugliarsi, producendo leggi e atti amministrativi che si contraddicevano tra di loro. I vincitori dei Concorsi per “dirigente tecnico archeologo, storico dell’arte, naturalista, paleografo, etnolinguistica, chimico e fisico”, non vennero immessi nella terza fascia della dirigenza, come sarebbe stato richiesto dal livello VIII previsto nel bando e come venne fatto per altro personale provinciale con analogo livello, transitato due anni dopo nei ruoli regionali senza selezione. Questi professionisti in possesso di titoli specialistici postlaurea e selezionati tramite concorso per i ruoli tecnici dei beni culturali vennero inspiegabilmente assunti con la qualifica di semplici funzionari, privi del profilo professionale previsto dai bandi, con un livello inferiore al personale diplomato, al quale quindi vennero subordinati in via gerarchica.
Infatti, le migliaia di dipendenti entrati nei ruoli regionali con il solo diploma oggi sono giunti tutti ai vertici del comparto della Regione Siciliana solo per anzianità e senza alcuna selezione. Per questo motivo e per il forte esubero dei dirigenti regionali, in Sicilia, in contrasto con quanto avviene nello Stato e negli altri enti locali, non viene rispettata, nell’attribuzione delle nomine, la distinzione tra incarichi dirigenziali e incarichi direttivi “non dirigenziali”. I funzionari direttivi siciliani sono infatti in stragrande maggioranza diplomati, a parte il caso anomalo dei vincitori del Concorso del 2000, archeologi, storici dell’arte che, però, non hanno alcuna possibilità di accesso all’organigramma del Dipartimento regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana, rimanendo così privi di un profilo professionale e di incarichi direttivi analoghi a quelli regolarmente svolti dai funzionari direttivi archeologi e storici dell’arte dello Stato.
Paradossalmente, proprio questo personale specializzato nel campo dei beni culturali, essendo stato inquadrato dall’amministrazione che lo ha selezionato, ad un livello inferiore degli altri funzionari diplomati, viene volutamente tenuto da oltre quindici anni inattivo rispetto ai compiti specialistici per cui è stato selezionato.
In Sicilia, dunque, gli stessi incarichi tecnici, di natura non dirigenziale, che nello Stato vengono assegnati ai funzionari direttivi in possesso di lauree specialistiche nei beni culturali, per esempio la responsabilità delle sezioni scientifiche delle Soprintendenze, dei Parchi e dei Musei, nell’amministrazione regionale sono di esclusivo appannaggio dei dirigenti del ruolo unico in sovrannumero, a prescindere dal possesso dei requisiti professionali richiesti dalle leggi. In tal modo ormai da molti anni le sezioni tecnico scientifiche delle Soprintendenze, dei Musei, delle Gallerie d’arte e delle Biblioteche, che, ai sensi della legge 116/1980, dovrebbero essere affidate ad archeologi, storici dell’arte, bibliotecari, etnoantropologi, naturalisti, vengono dirette in prevalenza da architetti, geologi o ingegneri, ma anche agronomi e laureati nelle discipline più varie. Al momento attuale solo 3 delle sezioni archeologiche delle 10 soprintendenze siciliane sono affidate ad archeologi e solo 2 dei 14 parchi archeologici siciliani sono diretti da archeologi.
L’ha scritto anche il procuratore della Corte dei Conti, Pino Zingale, nella sua requisitoria del 2016 contro l’approvazione del bilancio regionale: nell’amministrazione regionale dei beni culturali non ci sono le persone giuste al posto giusto. Eppure, come abbiamo visto, non mancano nei ruoli regionali archeologi e storici dell’arte, ma non vengono loro assegnate le mansioni e gli incarichi direttivi adeguati al loro elevato profilo professionale.
Il demansionamento dei funzionari regionali archeologi e storici dell’arte, inoltre, costituisce una grave penalizzazione di questo personale altamente qualificato rispetto ai loro pari nell’amministrazione statale di tutela, privandoli delle analoghe possibilità di carriera e per questo viola il principio di equità giuridica ed economica dettato dall’articolo 14 dello Statuto Autonomistico.
Non è più possibile accettare il fatto che a dirigere Musei e parchi archeologici non siano archeologi e che le prestigiose Gallerie d’arte regionali che contengono importanti opere artistiche non siano diretti da storici dell’arte.
Per porre rimedio a tale confusione di ruoli direttivi e funzioni tecnico-scientifiche nell’amministrazione regionale dei beni culturali non è necessario un intervento legislativo, occorre semplicemente applicare la normativa nazionale e regionale esistente. La soluzione ai gravi problemi del sistema regionale di tutela può venire infatti solo dal ripristino del ruolo tecnico del personale dell’amministrazione regionale dei beni culturali, come previsto dalla pianta organica contenuta dalla legge regionale 8/1999, mai abrogata quindi vigente. Ciò renderà possibile l’indizione di nuovi bandi di concorso per i “professionisti dei beni culturali” previsti dall’articolo 9 bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, per cui si rileva un forte vuoto di organico nell’attuale assetto dell’amministrazione regionale dei beni culturali.
La rifunzionalizzazione del ruolo tecnico nell’ambito dei beni culturali e la conseguente ridefinizione della relativa pianta organica darebbe l’opportunità ai professionisti attualmente nei ruoli regionali dei beni culturali di avere finalmente il giusto riconoscimento delle proprie funzioni direttive e, al tempo stesso, creerebbe le condizioni per bandire, finalmente, nuovi concorsi, dopo vent’anni, colmando i gravi vuoti di organico che nel corso del tempo si sono venuti a creare, garantendo il necessario ricambio generazionale agli Istituti regionali di tutela.
Solo per tale via si potrebbe invertire il processo ormai decennale di declino istituzionale dell’amministrazione regionale di tutela, ricostruendo il ruolo e la capacità di intervento delle Soprintendenze provinciali per i beni culturali e ambientali, cui va restituita la necessaria multidisciplinarietà tramite la ricostruzione di un assetto organizzativo basato sul giusto riconoscimento dei profili professionali specialistici attualmente presenti nel Dipartimento dei beni culturali. È necessario quindi predisporre una pianta organica rispettosa delle leggi nazionali e regionali di tutela.
Da un punto di vista delle risorse finanziare è necessario un nuovo e più efficace trasferimento di risorse ordinarie al settore dei beni culturali. Nel corso di questi ultimi decenni si è infatti assistito ad una costante diminuzione delle risorse che la Regione ha stanziato per tale fondamentale settore all’interno del proprio bilancio. Si è passati infatti dai 500 milioni di euro stanziati nel 2009 per i beni culturali siciliani ai soli 10 milioni degli ultimi anni. Si è in parte provato a colmare questa grave carenza di adeguati finanziamenti utilizzando le risorse rese disponibili dai fondi strutturali della Comunità Europea, senza però ottenere risultati significativi in tal senso, soprattutto per la scarsa capacità di progettazione degli interventi causata dal deficit di competenze specialistiche nei ruoli dirigenziali dell’Assessorato dei beni culturali e ambientali. Il risultato è davvero desolante: fondi non utilizzati e restituiti all’Europa, interventi realizzati e poi resi inefficaci dalla mancanza di una seria politica gestionale e, allo stesso tempo, una drastica diminuzione dei fondi ordinari che rendono inefficace l’azione di tutela e valorizzazione degli Enti istituzionali.
Una riforma effettiva del settore dovrebbe porsi l’obbiettivo di rendere efficace il dettato costituzionale di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale della Nazione, di cui fanno parte anche i beni culturali siciliani, anche attraverso una migliore e più efficiente azione burocratica. In effetti, sempre più spesso viene oggi avanzata a livello nazionale e regionale la richiesta di una burocrazia più efficace e ‘semplice’, necessaria come ha dimostrato la recente fase di crisi determinata dall’emergenza COVID. Se la semplificazione si rende necessaria, questo non può e non deve portare ad un depotenziamento delle Amministrazioni pubbliche, delle sue strutture e delle sue leggi. Al contrario, per avere una burocrazia adeguata alle difficili condizioni del Paese, bisogna semplicemente renderla più efficace attraverso il rispetto delle leggi, un migliore utilizzo delle specifiche competenze tecniche e un rafforzamento delle risorse finanziarie disponibili, esattamente il contrario di quanto fatto nel corso degli ultimi decenni.
Invece di provvedere alle gravi disfunzioni organizzative che paralizzano da vent’anni, come abbiamo visto, il Dipartimento regionale dei beni culturali, i diversi Governi regionali che si sono succeduti nell’ultimo decennio hanno, piuttosto, aggravato il caos istituzionale del sistema regionale di tutela, imponendo continue “miniriforme” dell’amministrazione regionale che, nell’intento dichiarato di far dimagrire l’elefantiaca macchina burocratica, hanno in realtà aumentato a dismisura le postazioni dirigenziali regionali e con esse le corrispettive onerose indennità.
Tale compulsivo processo di “riorganizzazione” continua degli apparati burocratici ha determinato la completa disarticolazione territoriale del sistema regionale di tutela, con la separazione delle Soprintendenze provinciali dai “luoghi della cultura” presenti nei territori di competenza, e, quindi, la dissoluzione del modello siciliano di tutela contestuale del patrimonio culturale e paesaggistico.
Nel frattempo, paradossalmente, tale modello di tutela olistica veniva fatto proprio dallo stesso Mibact con l’istituzione delle Soprintendenze unificate su base territoriale. Certo anche nella definizione del nuovo sistema statale non sono mancate le contraddizioni tra la tutela territoriale che dovrebbe essere assicurata dalle nuove Soprintendenze e l’autonomia assegnata in forme crescenti ai luoghi della cultura, come ha ben spiegato Carlo Pavolini.
Nel 2015, a sua volta, la Sicilia, per quel gioco dei “destini incrociati” che ha caratterizzato ripetutamente l’Isola rispetto al Continente, ha copiato l’istituzione statale dei Poli museali, affiancando alle Soprintendenze territoriali “Poli dei siti culturali” paralleli, che a volte erano addirittura doppi per ciascuna provincia, dotati di propri direttori ed una pletora di dirigenti del ruolo unico.
Un anno fa a tale confusione organizzativa l’attuale Governo Musumeci ha aggiunto la creazione di mega strutture burocratiche che si definiscono “Parchi archeologici” ma in realtà non hanno niente a che fare con il “sistema dei parchi archeologici siciliani” istituito dalla legge regionale 20/2000, accorpando insieme ai “parchi archeologici” perimetrati tutti i musei regionali e le aree archeologiche demaniali prima di competenza delle Soprintendenze provinciali. In tal modo, con un colpo di spugna si cancellano contemporaneamente la natura e i compiti istituzionali di tutela sia delle Soprintendenze per i beni culturali e ambientali sia dei 14 parchi archeologici siciliani.
A prova dell’avvenuto compimento di tale processo di dissoluzione del sistema siciliano pluridisciplinare di tutela sta il fatto che negli organigrammi di tutte le strutture del Dipartimento e di tutte le dieci Soprintendenze regionali manchino ormai quasi del tutto i professionisti dei beni culturali prescritti dal Codice quali archeologi e storici dell’arte, che pure, in buon numero, sono in servizio nei ruoli regionali da oltre quindici anni.
Per completare il quadro desolante dell’autonomia siciliana in materia di beni culturali è giunto in questi ultimi mesi il caso del disegno di legge di “riforma” del settore, approvato in Commissione Cultura dell’Ars, che verrà discusso in Aula a partire da settembre. Nonostante un ampio dissenso manifestato in Commissione sia da alcune forze politiche di opposizione che da un vasto consesso di associazioni professionali, culturali e ambientaliste, ed espresso pubblicamente tramite un appello popolare promosso da numerosi docenti universitari, il DDL è stato approvato in Commissione, mantenendo molte delle norme per cui erano state sollevate gravi questioni di incostituzionalità.
La nuova normativa di tutela che deriverebbe dal DDL 698 “Disposizioni in materia di beni culturali e tutela del paesaggio” e dal DDL 500 “Norme per l’istituzione dei Poli museali e dei Luoghi della Cultura”, sembra voler costituire una provocazione all’ordinamento giuridico italiano che si fonda sulla gerarchia delle fonti del diritto. Infatti, il disegno di legge esitato dalla Commissione Cultura dell’Ars ha l’ambizione dichiarata di costituire in Sicilia un “Codice regionale dei beni culturali e del paesaggio” che prenda il posto del “Codice” nazionale, approvato con il Decreto Legislativo 42/2004, in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, e immediatamente applicato in Sicilia in virtù del principio del recepimento dinamico.
Di tale fondamentale corpus organico di norme nazionali di tutela, il DDL in discussione all’ARS recepisce solo alcuni articoli, che in parte deforma, tramite modifiche volte a limitare le misure di tutela del “paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione” conservato in Sicilia. Con l’approvazione di questo disegno di legge non si capirebbe più quale dei due “Codici”, quello nazionale o quello siciliano ridotto, dovrebbero applicare i funzionari dell’amministrazione regionale di tutela nell’isola.
Si minerebbero così le fondamenta giuridiche dell’azione di tutela delle Soprintendenze e degli altri organi di tutela siciliani, in un quadro istituzionale, come abbiamo visto, già fortemente compromesso da decenni di malgoverno che hanno imposto all’amministrazione regionale dei beni culturali una classe dirigente dipendente direttamente dall’esecutivo e fortemente delegittimata dalle modalità di reclutamento e nomina.
In conclusione, il triste caso siciliano può considerarsi paradigmatico di cosa può accadere regionalizzando le competenze statali che discendono dai principi costituzionali. Siamo infatti di fronte ad uno sbriciolamento delle norme nazionali, ma anche delle stesse norme regionali che negli anni Settanta istituirono il sistema siciliano di tutela, volendo dare corpo all’utopia di una tutela contestuale del patrimonio culturale e paesaggistico, che fosse rispondente alle aspettative democratiche di progresso culturale della società italiana. Tale innovativo disegno istituzionale e l’Utopia da cui discendeva, però, nell’Isola si sono trasformati in una triste impostura.
Il sistema fondato sul carattere multidisciplinare delle Soprintendenze territoriali, mai veramente attuato per le resistenze della burocrazia regionale, negli ultimi decenni è stato totalmente sovvertito per opera degli esecutivi regionali che hanno avuto il preminente interesse di assoggettare gli organi tecnici di tutela alla volontà politica del momento, delegittimandone l’autorevolezza scientifica e istituzionale.
Il “laboratorio siciliano” oggi serve solo per fare in Sicilia ciò che si vorrebbe poi tentare di replicare in campo nazionale, utilizzando le diverse legislazioni regionali: provare a smontare il principio costituzionale della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale, producendo “spezzatini” normativi, incongrui rispetto al Codice, come intende fare la legge sarda sul Piano Paesaggistico, promulgata in questi mesi, che è stata provvidamente impugnata dal Governo nazionale.
In Sicilia tutti gli ultimi governi regionali hanno provato a manomettere la tutela paesaggistica con norme poi annullate dalla Corte Costituzionale, sulla base del principio che la legislazione regionale può ampliare ma non limitare i vincoli statali. Eppure, i legislatori siciliani ci riprovano ancora una volta: in questi giorni è in discussione presso l’Ars un altro disegno di legge in materia urbanistica che estende l’applicazione della sanatoria edilizia del 2003 agli immobili sottoposti a vincolo. Alla politica regionale è sufficiente promettere sulla carta favori agli abusivi per averne in cambio risultati elettorali.
Nella nuova stagione di furore regionalista che stiamo vivendo resta vivo il monito che il deputato comunista della Costituente, Concetto Marchese, indirizzò a quanti volevano inserire tra le materie di competenza regionale la tutela del patrimonio culturale:
(…) La Sicilia è tutta quanta un grandioso e glorioso Museo, onorevoli colleghi, e noi non dovremmo permettere che interessi locali, che irresponsabilità locali abbiano a minacciare un così prezioso patrimonio nazionale. Ricordo soltanto ai colleghi maestri di stile e serietà che nessuna Regione potrà sentirsi menomata se sarà conservato sotto il controllo dello Stato, al riparo di sconsigliati e irreparabili interventi locali, quel tesoro che costituisce uno dei nostri vanti maggiori (…).
Marchese, docente di letteratura latina all’Università di Catania, allarmato per la potestà legislativa regionale appena sancita dallo Statuto autonomista siciliano, ha impedito che venisse attribuito alle Regioni il compito di tutelare “il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione”, obbligo costituzionale che egli stesso aveva contribuito a fissare tra i principi fondamentali della nascente Repubblica. Allora come oggi, questo principio verrà rispettato se “sarà conservato sotto il controllo dello Stato” e affidato alle cure di funzionari competenti, liberi dal condizionamento di interessi locali, la delicata funzione della tutela di “quel tesoro” nazionale.
