Il museo distrutto
Ci sono tuttora pubblicazioni e siti internet che forniscono l’indirizzo del Museo Torlonia di Roma: via Corsini n.5, nel rione Trastevere, accanto a via della Lungara e a Palazzo Corsini, sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica. Una posizione quindi ottimale se il museo – composto a suo tempo da settantasette ambienti numerati, tra sale, gallerie e corsie – non fosse stato smantellato per realizzare abusivamente novantatré miniappartamenti di bassa speculazione, anche se di lusso.
Basta consultare le guide del Touring club italiano riguardanti Roma per rendersi conto di quest’assurda vicenda. Infatti, fin dalla prima edizione del 1925 esse avevano sistematicamente potuto riportare la descrizione di quel museo e delle opere in esso presenti, soffermandosi in particolare sulla Galleria a tre navate, la Sala Arcaica, la Sala degli atleti, la Sala dei sarcofagi, il locale con gli affreschi distaccati dalla Tomba François di Vulci e altro ancora. Finché, invece, hanno dovuto limitarsi a scrivere solo quanto segue: “il cinquecentesco Palazzo Torlonia, già sede del Museo Torlonia, è oggi lottizzato in appartamenti, mentre l’importantissima raccolta di oltre 600 pezzi di scultura classica è ammassato in magazzini”. Questo è l’incivile biglietto da visita che si presenta ancora oggi agli studiosi, ai cittadini romani e ai turisti d’Italia e di tutto il mondo, pur se, finalmente, almeno una parte di quei preziosi marmi ha potuto svelarsi con la mostra al Campidoglio, in Villa Caffarelli, curata da Salvatore Settis e Carlo Gasparri, con allestimento dell’architetto David Chipperfield, dopo un sapiente restauro eseguito da Anna Maria Carruba.
La Collezione, divenuta nel tempo la più importante al mondo di arte antica tra quelle private, fu iniziata da Giovanni Raimondo Torlonia (1754-1829), proseguita e custodita dai suoi eredi fino a colui che Antonio Cederna definì “l’attuale rampollo della nobile famiglia, Alessandro junior Torlonia, già assistente al soglio pontificio, che ha smantellato quanto i suoi avi avevano pazientemente e con competenza costruito”. E per la verità hanno fatto cronaca negli anni più le iniziative immobiliari che altro: dall’abuso della Lungara al progetto di un immenso centro congressi nella splendida tenuta di Castel Gandolfo, dalla trasformazione in albergo del Conservatorio di via di Sant’Onofrio ai progetti di un megaparcheggio sotterraneo e di un nuovo edificio nel verde vincolato di Villa Albani.
La raccolta di sculture greche e romane, ufficializzata come museo nel 1859, è costituita da statue, busti, ritratti, sarcofagi, rilievi, elementi decorativi, ecc. provenienti dalle più importanti collezioni private: dai 115 pezzi di quella gloriosa dei Giustiniani, ad altri originariamente dei Cavaceppi, Vitali, Albacini, Savelli, Caetani, Cesarini, Orsini. Essa inoltre si arricchì con le attività di scavo nelle grandi tenute dei Torlonia: dalla Villa dei Quintili a quelle di Massenzio e dei Gordiani, dall’area del Porto di Traiano a quella del Fucino (usurpando i secolari diritti di quelle popolazioni), da Centocelle e Villa Adriana, ad Anzio a Cerveteri e ad altre località del Lazio.
Il primo catalogo fu redatto nel 1883 da Carlo Ludovico Visconti. A esso si aggiunsero un Atlante di tavole in fototipia pubblicato dal Danesi e una seconda edizione del 1885. Risultarono così numerati 616 pezzi ai quali ne vanno aggiunti circa una quarantina, risultati non catalogati, durante un’ispezione della soprintendenza nel corso dell’iniziativa giudiziaria innescata dalla scoperta dell’abuso edilizio e dello spostamento dei marmi. Un aggiornamento in epoca recente è stato curato dall’Accademia dei Lincei (C. Gasparri, “Materiali per servire allo studio del Museo Torlonia di scultura antica”, 1980). Comunque a tutt’oggi, senza una sede in cui sia esposta l’intera Collezione, adeguatamente restaurata e dotata di un nuovo catalogo scientifico, la cultura italiana e mondiale resta priva di un bene unico e preziosissimo.
Per quantità e qualità del livello artistico si è calcolato che le statue greco-romane della Collezione Torlonia rappresentano da sole “un buon terzo del patrimonio antico posseduto dalla città”. Tra i veri e propri capolavori: l’Hestia Giustiniani, la Pallade di Porto, la colossale Testa di Apollo di Kanachos, due esemplari dell’Eirene di Cefisodoto padre di Prassitele, l’Afrodite Anadiomene, l’Atleta di Mirone, il Diadumeno di Policleto, il ritratto noto come Eutidemo di Battriana, l’eccezionale rilievo di Portus con la rappresentazione degli edifici, delle navi, delle divinità protettrici e della vita commerciale dell’antico Porto di Roma, pregevolissimi sarcofagi come quello delle fatiche d’Ercole e quello singolare di un’accolta di dotti a grandi figure, la splendida serie di un centinaio di ritratti, in maggior parte imperiali, considerata dagli studiosi più importante di quelle dei musei Capitolini e Vaticani, ecc.
Infine non va tralasciato di sottolineare che facevano parte integrante del Museo Torlonia, i citati affreschi scoperti nel 1857 nella necropoli di Vulci dall’ingegner François e dall’archeologo Noël des Vergers, celebri per le significative scene a riscontro, una riferita alla mitologia epica greca e l’altra alla più suggestiva saga della storia etrusca: quella di Mastarna, identificabile come il futuro re Servio Tullio, che si affianca ai fratelli Aulo e Celio Vibenna nella lotta per la conquista del potere su Roma. Con lo smantellamento del museo gli affreschi furono trasferiti in una sala di Villa Albani, ma solo in custodia e non in esposizione, diventando poi oggetto di contesa tra gli eredi Torlonia.
Il “rimessaggio” dei preziosi marmi, le vicende giudiziarie, le denunce e le proposte di Antonio Cederna e Italia Nostra
L’abuso edilizio, attuato all’inizio degli anni settanta sulla base di una licenza per restaurare un tetto, denunciato fortemente da Antonio Cederna e Italia Nostra, fu perseguito penalmente in quanto tale ma, allo stesso tempo, avendosi a che fare con la “Sede del Museo Torlonia alla Lungara”, sottoposto a vincolo ai sensi dell’art. 5 della legge n. 1089/89 con Decreto Ministeriale 22/12/1948 notificato il 29/12/1948, il soprintendente inoltrò anche la denuncia contro il proprietario, Alessandro Torlonia, per i reati di cui agli articoli 11, 12 e 18 della stessa legge.
Con il conseguente sequestro della famosa Collezione, la perquisizione, le operazioni di riscontro delle opere che avrebbero dovuto essere presenti e sistemate nella disposizione originaria, si acclarò che venti statue erano state trasferite a Villa Albani e che “la sede era tutt’altra, essendo i pezzi addossati l’uno all’altro in tre soli ambienti” (rapporto della Dott.ssa Bertoldi del 13 dicembre 1976). Fu allegata anche una documentazione fotografica che i legali del proprietario tentarono vanamente di non far acquisire agli atti del processo.
Il museo quindi non esisteva più, era stato distrutto e il proprietario ne doveva rispondere penalmente. Quanto ai danni riscontrati in singoli pezzi, si dichiarava “non potersi valutare se essi fossero dovuti alla rimozione e al trasporto dalla sede originaria”. In sintesi: reato di rimozione abusiva di cose d’interesse artistico e incertezza nell’attribuzione anche di danni alle singole opere d’arte. Tuttavia il pretore, con sentenza dell’11 gennaio 1979, doveva dichiarare di non poter procedere ulteriormente contro il proprietario per sopravvenuta amnistia.
Il ricorso in Cassazione del Torlonia fu per lui un vero e proprio boomerang, perché la Corte (Sezione III penale, sentenza 27 aprile 1979) ribadì che il reato sussisteva perché i pezzi erano stati “trasferiti in locali angusti, insufficienti, pericolosi, e comunque rimossi dai locali destinati a museo” che ormai era stato abolito perché ridotto a un “rimessaggio” in cui le statue risultavano “addossate l’una all’altra senza alcun riferimento storico o di omogeneità”. La Collezione, tolta dal suo ambiente naturale che ne aveva determinato l’insieme era “seriamente menomata” e destinata a “sicura morte dal punto di vista culturale”.

La Cassazione inoltre affermò esplicitamente il principio che “il privato proprietario di cose d’interesse artistico si colloca in realtà come una specie di detentore dell’opera d’arte, protetta dalla legge speciale, come un concessionario del diritto di tutela che cede a carico soprattutto dello Stato”. Stabilì infine che “il privato che abbia disperso o distrutto una cosa artisticamente protetta, e che non sia quindi suscettibile di riduzione in pristino, è condannato al pagamento in favore dello Stato di una somma pari al valore della cosa perduta o della diminuzione di valore subita per effetto del suo comportamento, secondo il dettato dell’art. 59/3 legge 1089”.
Fu proprio quest’ultimo punto, sancito dalla suprema Corte in via definitiva, a spingere Antonio Cederna a riprendere con ancor maggiore incisività, anche nel suo ruolo di parlamentare, la battaglia per restituire al pubblico e agli studiosi la nascosta Collezione, una battaglia che Italia Nostra aveva avviato fin da quando i Torlonia avevano iniziato a precludere la visione di quei preziosi marmi. Già nel 1964, infatti, l’allora Presidente della Sezione Romana Tito Staderini aveva dovuto scrivere: “Il recente interessamento della Stampa e dell’opinione pubblica suscitato dal rifiuto dell’attuale proprietario di concederne la visita, non solo a persone di cultura ma anche ad archeologi qualificati, rende attuale il problema della conservazione, della catalogazione e del godimento pubblico delle gallerie ancora di proprietà privata” e aveva posto l’alternativa: o la Collezione Torlonia restava proprietà privata, ma con la garanzia dell’esposizione al pubblico, oppure veniva ceduta allo Stato, richiamando peraltro le “tradizioni di signorilità” delle famiglie nobiliari romane e degli stessi Torlonia, del cui avo, il duca Don Giovanni, citava il testamento del 3 marzo 1829 con cui questi stabiliva che la propria Galleria “rimanesse a memoria di lui e potessero avervi accesso tanto i cittadini quanto gli esteri che bramassero osservarla, a lustro della capitale e a godimento pubblico”.
La proposta di legge Cederna
Rilanciando quella linea, Antonio Cederna presentò in Parlamento una proposta di legge (n.4934 del 4 luglio 1990) che fu sottoscritta anche da altri deputati delle più varie forze politiche (Bassanini, Becchi, Mensurati, Dell’Unto, Dutto, Nicolini, Alborghetti, Testa Enrico, Picchetti, Boselli, Sapio, Zevi, Beebe Tarantelli, Gramaglia, Di Julio, Levi Baldini, Masina, Mattioli, Scalia, Filippini, Ronchi). Con essa si stabiliva che il Ministro per i beni culturali e ambientali procedesse all’acquisizione della Collezione Torlonia per permetterne la fruizione pubblica e che essa fosse assegnata al demanio dello Stato e presa in custodia dal Museo nazionale romano, il tutto a titolo gratuito in sostituzione della sanzione pecuniaria che il proprietario avrebbe dovuto pagare in applicazione dell’art. 59 della legge n. 1089/39.
Un articolo di Cederna su La Repubblica del 18 agosto 1991 fu appropriatamente titolato “In nome della legge riaprite quel museo!”, con una battagliera allusione alla legge presentata un anno prima in Parlamento e lì purtroppo ancora giacente. In esso si ripercorrevano le scandalose vicende che avevano negato alla città, per decenni, di poter fruire di un bene culturale così prezioso e si illustrava la proposta di legge per l’acquisizione gratuita della Collezione Torlonia come riparazione e compenso del danno effettuato. Quindi l’articolo si concludeva con le seguenti parole: “Questa proposta di legge ha avuto il parere favorevole della settima commissione (cultura) e della prima (affari costituzionali): si è arenata alla quinta (bilancio) per ragioni che non ho ben capito se non che è grande ancora, in molti politici, il rispetto per chi distrugge musei e seppellisce le antichità nel sottosuolo.

È tuttavia lecito sperare, prima della fine della legislatura, in un sussulto di dignità del Parlamento”. A tutt’oggi, invece, quel sussulto il Parlamento non lo è andato a cercare, lasciando la questione nelle mani di fumose trattative condotte da apparati ministeriali e ministri.
D’altra parte a una pubblica acquisizione si pensava già da più di ottanta anni, da quando era stata istituita nel 1907 una prima commissione, seguita nel 1951 da una seconda e nel 1982 da una terza, con esiti sempre però vani se non aberranti, mentre ricorrevano ogni tanto “gli interventi indignati di una parte della stampa, nel penoso e complice silenzio (con l’eccezione di Giulio Carlo Argan) degli storici dell’arte” (A.C.). Ma intanto si era anche aggiunta l’aggravante dello smantellamento del museo e del rimessaggio dei pezzi scultorei negli scantinati del palazzo alla Lungara e, sembra, anche in altri depositi “segretissimi”, dei quali tuttavia la soprintendenza avrebbe dovuto essere informata. Il problema è rimasto così sempre aperto, costituendo una spina nel fianco dei ministri dei Beni culturali, ad alcuni dei quali è sembrato comunque interessare abbastanza poco, e un’occasione per scandagliare soluzioni definitive e proposte di una nuova sede museale. Se perciò oggi si può scrivere, nel catalogo della mostra al Campidoglio e, a cascata, in vari articoli sulla stampa e sul web, di “aura leggendaria” che avvolge la Collezione Torlonia, lo si deve soprattutto al suo vergognoso occultamento per decenni e alle conseguenti battaglie per la riemersione dall’aria di chiuso in cui è stata per troppo tempo stipata.
Le sedi indicate per la Collezione
Tra le sedi proposte per accogliere i marmi Torlonia – discorso che peraltro può considerarsi ozioso se non si scioglie a monte il problema della loro integrale acquisizione in mani pubbliche – quella che ha avuto sicuramente maggiore consistenza ed anche più ampio consenso è stata l’individuazione come prestigiosa sede per la Collezione del rinascimentale Palazzo Giraud in via della Conciliazione, presentata entusiasticamente nel gennaio 1992 dall’allora direttore generale dei Beni Culturali, che annunciò anche l’imminente firma di una convenzione con lo Stato. Il Ministero infatti l’aveva fatta studiare a lungo (in particolare dall’archeologa Lucilla de Lachenal e dall’architetto Giuseppe Benucci) valutando le caratteristiche degli ambienti, la disposizione dei singoli pezzi, le condizioni statiche dei solai e presentando perfino pubblicamente il progetto di allestimento presso il Palazzo delle Esposizioni. Questa soluzione fu condivisa anche dal Comune che, adottando nel giugno 1998 il Piano di recupero dell’ex Conservatorio Torlonia in via di Sant’Onofrio, stabilì di assumere ogni iniziativa utile alla collocazione delle sculture “nell’edificio Torlonia di via della Conciliazione oppure in un padiglione dell’ex Mattatoio o edificio similare dell’Amministrazione Comunale, escludendo l’ipotesi di collocare la Collezione in un nuovo edificio nell’area di Villa Albani”.
Tale assurda ipotesi era stata lanciata qualche mese prima dall’Amministrazione Torlonia con un progetto, a firma dell’architetto Corrado Sciarrini, che prevedeva la costruzione di un edificio museale moderno di 30.000 metri cubi e annesso un megaparcheggio sotterraneo di 51.000 metri cubi per 600 posti auto accanto all’edificio settecentesco progettato da Carlo Marchionni. Una vera e propria violazione delle norme di tutela e uno sconvolgimento idrogeologico e paesistico, di cui l’allora vicepresidente del Consiglio nazionale dei Beni culturali, l’illustre critico d’arte Federico Zeri, si attribuì la paternità (La Stampa, 14/7/1998) lanciando nel contempo un violento attacco a Italia Nostra. La sezione romana dell’Associazione, infatti, venuta a conoscenza del progetto, si oppose decisamente all’invasiva operazione immobiliare rivestita dall’accattivante offerta di “restituire” al pubblico la famosa Collezione sequestrata dai suo stessi proprietari violando la legge. La presidente Maria Antonelli Carandini inviò tempestivamente un telegramma al ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani e al sindaco Walter Veltroni per esprimere “totale disaccordo” nei confronti della costruzione di qualsiasi nuovo edificio in Villa Albani, oltretutto insieme a un enorme parcheggio interrato, perché oltre a distruggere e a violare la preziosa intangibilità della villa, estesa in un ‘unicum’ dalla via Salaria a viale Regina Nomentana, “avrebbe anche costituito un pericoloso e gravissimo precedente per tutti i parchi delle ville storiche di Roma”. D’altra parte venne anche fuori che la villa era vincolata: decreti 263771, 263773 e 263777 del 9/11/1960, di cui il primo revocato per la parte non annullata dalla decisione del Consiglio di Stato, VI Sezione, n.350 del 19/6/1963 e sostituito dal n.188983 del 5/8/1963.
Un’idea apprezzabile, invece, emerse dalle stanze del Campidoglio nella primavera del 2000: quella di adibire a museo gli edifici già acquisiti di Villa Torlonia sulla Nomentana, da sistemare utilizzando 40 miliardi stanziati sul fondo di Roma Capitale. Ma su di essa incombeva sempre la richiesta dei Torlonia di ottenere come contropartita la concessione edilizia per la costruzione del megaparcheggio dentro Villa Albani, rinunciando generosamente, si fa per dire, a quella del nuovo edificio. Insomma le statue continuavano, e continuano tuttora, a essere usate come merce di scambio per operazioni immobiliari e quant’altro da parte dei loro proprietari.
Successivamente l’allora soprintendente regionale ai Beni ambientali e architettonici, Ruggero Martines, avanzò la proposta, invero molto generica, di utilizzare il settecentesco Arsenale Pontificio, in procinto di integrale restauro, immediatamente al di là di Porta Portese e quindi anche vicinissimo alla sede ministeriale del San Michele.
Una svolta che sembrò determinante, ma che purtroppo non lo fu, si ebbe quando sia il Consiglio Comunale il 21/12/2001, sia il Consiglio Provinciale il 28/1/2002, chiesero all’unanimità il rifinanziamento della Legge per Roma Capitale per sistemare la Collezione Torlonia nell’immobile di proprietà comunale adibito a uffici elettorali di Via dei Cerchi, noto come Palazzo dei Musei perché aveva accolto negli anni Trenta sia il Museo dell’Impero Romano sia il Museo della Città di Roma. La Provincia aveva anche stanziato, nel bilancio 2002/2004, uno specifico finanziamento di 2.000.000,00 euro per il restauro della Collezione. A seguito, il 22/2/2002 fu presentata alla Camera dei deputati la proposta di legge, prima firmataria l’On. Titti De Simone di Rifondazione Comunista, per l’acquisizione della Collezione Torlonia da parte dello Stato. La proposta riprendeva quella “Cederna” del 1990, con in più l’indicazione della nuova sede, quella appunto già richiesta dal Consiglio Comunale e dal Consiglio Provinciale, e il finanziamento al Comune di Roma di 50 milioni di euro, attraverso la legge n°396/90 per Roma Capitale, per “la realizzazione degli interventi necessari alla musealizzazione dell’area archeologica e monumentale del Circo Massimo e al recupero alla sua originale destinazione del Palazzo dei Musei di Roma sito in via dei Cerchi”. Questa proposta ebbe, ovviamente, appoggio pieno da parte di Italia Nostra e interessò personalità della cultura e dell’arte, ma si spense con la fine della legislatura.
Solo in questi ultimi cinque anni si è ripreso interesse e si sono aperte luci su tutta la questione, tra contenziosi sempre in piedi con lo Stato e il Comune, morte del capostipite Torlonia principe Alessandro, liti fra gli eredi, fallimento della Banca del Fucino di loro proprietà, ma anche inizio di trattative che hanno portato, il 15 marzo 2016, alla firma di un protocollo d’intesa tra il Ministero dei Beni Culturali, allora guidato da Dario Franceschini, e la Fondazione Torlonia, nel frattempo costituitasi, per un’esposizione permanente di novantanove opere della Collezione “finalizzata all’esposizione stabile al pubblico della collezione stessa”, obiettivo strategico, questo dell’esposizione stabile, che non deve essere mai dimenticato.
Così si è arrivati, finalmente, all’inaugurazione della citata mostra in Villa Caffarelli il 14 ottobre 2020 nel clima e nelle restrizioni di una crudele pandemia. Nell’occasione il Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini, ha dichiarato: « Questo è un primo passo importante perché la strada che si vuole intraprendere porta all’individuazione di un luogo a Roma, condivisa con gli eredi Torlonia, dove rendere visibili per sempre queste opere. Lo Stato è disponibile a dedicare luoghi e risorse adeguate a un simile museo. In tal senso una sede prestigiosa come Palazzo Rivaldi, per il cui restauro è già deliberato un finanziamento di 40 milioni di euro, si potrebbe prestare a ospitare la Collezione Torlonia ». Questa è perciò la più recente indicazione di un edificio storico dove sistemare le famose statue, pronunciata da un Ministro il quale però sembra ignorare due questioni importanti. La prima, che Palazzo Rivaldi, su cui si è già scritto tanto, collocato su ciò che resta della collina Velia, vicino al Colosseo, di fronte alla Basilica di Massenzio, è proposto da anni e da varie personalità della cultura, sulla linea di Antonio Cederna, come la sede più consona per divenire il Museo dei Fori, deputato a esporre tutto ciò che può servire da introduzione, illustrazione e guida del Parco dei Fori, cominciando dai numerosi reperti ancora inscatolati e chiusi a lucchetto dell’ex Antiquarium Comunale che giace in stato d’abbandono fin dal 1939, integrandoli con altre opere, con materiale didattico di ogni specie, ecc. La seconda, che non si può non mettere sul piatto della bilancia di ogni trattativa con i proprietari della Collezione Torlonia, da chiunque rappresentati, il grande danno culturale e materiale compiuto negandone illegittimamente la visione a più di una generazione di cittadini e di studiosi, perciò non gli si possono fare regali di nessuna specie. Voglio citare nel merito un bell’articolo di Danilo Maestosi sulla mostra di Villa Caffarelli, pubblicato su “succedeoggi” il 20 ottobre 2020 e titolato non a caso “L’affaire Torlonia”, dove tra l’altro si scrive: « Ma non sa di falso esaltare come un esempio ammirevole e da imitare di sinergia tra il pubblico e il privato lo sblocco di una trattativa tra lo Stato e la famiglia Torlonia senza renderne noti i termini, che non a tutti possono apparire così vantaggiosi e risolutivi? Senza spiegare, ad esempio, che nel patto che ha dato origine a questa mostra… la ripartizione dei benefici non è ottimale: lo Stato e il Comune, con il prestito di villa Caffarelli, si accollano tutti i costi, che sono stati davvero ingenti, e i Torlonia si riservano un’ampia partecipazione, quasi un terzo, agli utili sugli incassi ».
La mostra, la cui apertura era stata già necessariamente rinviata a causa della pandemia, dovrebbe chiudersi il 29 giugno 2021, salvo eventuali proroghe, e troppi problemi resteranno, invece, ancora aperti. Fra questi c’è già molto da preoccuparsi per l’annunciata peregrinazione di quelle preziose opere in un “tour mondiale” in cui tra l’altro si farebbe una tappa proprio nel Getty Museum di Los Angeles che fino a poco tempo fa ha brigato, scavalcando ogni vincolo, per acquistare l’intera Collezione direttamente dai Torlonia, ospitarla prima al centro di Roma, nel Palazzo Mancini-Salviati di via del Corso,
gestirla da lì e poi anche esportarla, ma su questo rimando al documentato articolo di Fabio Isman su “Il Giornale dell’Arte” dell’aprile 2020. Altro inquietante interrogativo si pone sull’eterno contenzioso che i Torlonia ha sempre saputo innescare, tanto più oggi con gli ultimi eredi avvolti in una faida familiare e la loro Banca del Fucino sull’orlo del crac.
Comunque sia, la ricostituzione in tempi brevi e certi di un nuovo museo dedicato alla Collezione Torlonia, dopo decine d’anni di sua reclusione ingloriosa e forzata e una mostra solo parziale resta uno dei più grandi obiettivi culturali da conquistare per Roma, per l’Italia e – senza retorica, perché l’ha detto pure Alexander Francis Poma Murialdo, intraprendente erede Torlonia e Presidente dell’omonima Fondazione – per l’Umanità. Dispiace, intanto, constatare che nei testi con cui si apre il ponderoso catalogo della mostra in Villa Caffarelli, e nella mostra stessa, si trovino, sì, una descrizione, delle foto e anche una planimetria del vecchio museo, ma nessuna traccia della sua distruzione attraverso un abuso edilizio e di ciò che contengono oggi i suoi muri, nessun accenno alle reazioni e proteste suscitate, nessuna citazione di appelli e articoli per il ritorno in vita della Collezione, forse nel timore che compaia, anche di sfuggita, l’ombra di Antonio Cederna che tanto si spese per quell’obiettivo. E pensare che, quando fu firmato il citato protocollo d’intesa del 2016 che aprì la strada a un primo svelamento delle sculture, il maggior giornale italiano, il Corriere della Sera, pubblicò un entusiastico articolo dedicato a quel grande e combattivo intellettuale sotto il titolo “Torlonia, oggi vince Antonio Cederna”.