Non mette ormai conto, scrivendo nel marzo 2020
1, di diffondersi sulla vicenda (quasi paradossale, a questo punto) per cui la tormentata gestione dei nostri beni culturali – dopo il breve intermezzo Bonisoli – è tornata, con il governo Conte 2, sotto la responsabilità di Dario Franceschini, che già l’aveva detenuta fino al maggio 2018: per cui ora, così come si parla appunto di Conte 2, possiamo per comodità riferirci ad un Franceschini 2
2. Non mette conto, perché è ben noto che Franceschini 2 – una volta tornato al governo – ha anzitutto bloccato i provvedimenti adottati da Bonisoli prima che entrassero formalmente in vigore e ha poi riconfermato i punti-chiave del proprio precedente riassetto, sia pure con integrazioni e modifiche. Queste ultime sono state prima divulgate mediante alcune accorte mosse mediatiche; poi la vecchia/nuova risistemazione del MiBACT è stata varata tramite il DPCM emanato in data 2 dicembre 2019, n. 169, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 21 gennaio 2020 (“Regolamento di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo…”). Da esso discendono quattro decreti ministeriali (DM) attuativi)
3, emessi in data 28/1/2020, dei quali i primi due ci interessano più direttamente: si tratta dei nn. 21 (articolazione degli uffici) e 22 (organizzazione e funzionamento dei musei statali e altre disposizioni).
Ma prima di tali misure formali, come accennavo, il ministro aveva provveduto ad anticipare alcuni punti-chiave del vecchio/nuovo corso all’opinione pubblica, ed è per questo che vale la pena di rileggere l’articolo di Eder Ossek sul “Giornale dell’Arte” del novembre 2019 (apparentemente superato dai fatti, quindi, ma in realtà illuminante sugli attuali modi di vedere del responsabile del Ministero). L’articolo è infatti quasi un’intervista allo stesso Franceschini, del quale vengono trascritte ampie dichiarazioni virgolettate. Appare già significativo il titolo: “Evviva, riparte l’autonomia”, ed è proprio sul nodo dell’autonomia che vorrei qui soffermarmi. Intendiamoci, ci sono anche molte altre e importanti questioni in ballo: e tuttavia ritengo che su uno dei punti centrali del conflitto politico-culturale di questi mesi – il concetto e la prassi dell’autonomia nella gestione del patrimonio storico-artistico, appunto – regni tuttora una notevole confusione di idee.
Di fatto, da questo punto di vista lo scontro, fin dall’epoca delle prime misure Franceschini del 2014 e anni successivi
4, si è sempre polarizzato su “autonomia sì, autonomia no”, intendendo con tale termine l’autonomia di alcuni grandi musei, di alcuni grandi parchi archeologici e così via. Ma la discussione rischia così di cristallizzarsi e di risultare sterile, e in ogni caso – secondo me – la questione andrebbe forse posta (andava posta?) in altro modo, sotto forma di domanda anziché sotto forma di asserzione: “autonomia, per fare che cosa?”. Oggi la situazione è certo compromessa, ma si può tuttora provare a proporre un’analisi diversa, sperando che per questa via, almeno sul piano concettuale, si riescano ad operare alcune opportune distinzioni.
Nel merito, il problema delle strutture espositive di antichità mi è più congeniale, ma non mi ispirano certo ragioni di formazione disciplinare se lo affronto per primo, a cominciare dalle forti e motivate critiche mosse alla “riforma” Franceschini riguardo al distacco dei musei archeologici dal territorio: alludo soprattutto a quelle strutture che sono state “dotate di autonomia speciale” (è la formula ufficiale) e separate dalle Soprintendenze territoriali di riferimento. Non entrano qui in campo solo istanze puramente metodologiche, ma concreti fattori pratici di ricerca e di tutela, i quali, peraltro, affondano le loro radici in una storia che i promotori della “riforma” non hanno forse sviscerato abbastanza. Adriano La Regina ha infatti più volte richiamato l’attenzione su una realtà già nota: i grandi musei archeologici italiani sono stati creati, fin dal tardo Ottocento, “in stretto rapporto con il loro ambito territoriale: raccolgono (…) materiali e dati conoscitivi che (…) emergono o si producono (…) in un determinato comprensorio”
5, tant’è vero che storicamente molte Soprintendenze archeologiche sono sorte come gemmazioni dei rispettivi grandi musei.
La “riforma” ha provocato, in questo campo, difficoltà corposissime: si veda il… piccolo particolare di non sapere più dove depositare l’enorme quantità di materiali che le indagini sul campo restituiscono ogni giorno, e per i quali le Soprintendenze facevano finora riferimento ai musei. Emergono però anche altre aporie, magari di minore visibilità immediata, ma esiziali per il destino della ricerca antichistica nel nostro Paese. Infatti una Soprintendenza è tenuta, per dovere scientifico e morale, a divulgare le risultanze degli scavi tramite mostre, convegni, pubblicazioni, ecc., il che comporta non solo la necessità di disporre di adeguate sedi per farlo, ma anche l’esigenza di tutto un lavoro preliminare di documentazione, analisi, studio, conservazione dei reperti. Le Soprintendenze – staccate dai musei cui prima erano organicamente connesse, e che costituivano il cervello e il primo strumento delle attività di tutela – non hanno più né i laboratori occorrenti, né gli spazi in cui ospitarli: che cosa dovrebbero fare ora, duplicare gli archivi, i gabinetti di restauro, grafici, fotografici, ecc.? A parte l’assurdità e i negativi risvolti etici della cosa, a quali fondi, a quale personale attingere? Il colpo che in tal modo viene recato alle prospettive, già grame, della conoscenza storica del nostro territorio (e, non ultimo aspetto, ai fecondi rapporti che finora intrattenevamo con importanti e antiche istituzioni scientifiche straniere operanti in Italia) può rivelarsi mortale.
Non c’è però solo l’archeologia, che fa subito pensare ai casi macroscopici dei musei di Napoli, di Taranto, al Museo Nazionale Romano, a Villa Giulia… e potrei continuare. C’è chi dice che sì, forse, queste obiezioni saranno anche valide per alcune sedi espositive di antichità, ma non per tutte, e comunque non per i musei storico-artistici. Senza essere esperti della materia, basta invece isolare tre o quattro esempi supremi quali le Gallerie dell’Accademia di Venezia, Capodimonte o Brera, più alcuni casi appena meno noti ma preziosi, quali le Gallerie Nazionali dell’Umbria, di Modena e di Parma (tutte realtà ora “dotate di autonomia speciale”), per accorgersi che in tali istituzioni le raccolte sono storicamente legate all’humus artistico delle regioni di appartenenza: anzitutto al collezionismo dinastico dei vari Stati preunitari, ma anche ai patrimoni degli ordini religiosi soppressi, nonché ad acquisti, doni, lasciti da parte delle famiglie nobiliari e di membri delle élites locali, ecc. Vale inoltre anche qui ciò che si è appena detto a proposito dell’archeologia: siamo certi che le Soprintendenze territoriali, dalle quali i “supermusei” (brutto termine, ma è per capirsi) sono stati staccati, riescano attualmente a farcela con centri di restauro, personale e mezzi propri, ammesso che esistano? Certe dolorose “cronache del terremoto” sembrerebbero suggerire una risposta negativa.
Un’argomentazione che mi è spesso capitato di ascoltare a sostegno del conferimento dell’”autonomia speciale” ad alcuni grandi musei (non a tutti, per inciso, e già sui criteri della scelta ci sarebbe da interrogarsi: ma lasciamo stare
6) è la seguente: in tutto il mondo – o comunque in tutti i grandi Paesi occidentali – i grandi musei sono retti da un ordinamento autonomo; l’Italia faceva eccezione, e quindi era giunto il momento di introdurre un’analoga legislazione anche da noi.
In sé, sembrerebbe una formula tautologica abbastanza facile da smontare, così come – se si trattasse di una semplice pulsione imitativa dell’”estero” – risulterebbe fin troppo facile tacciare di provincialismo chi la pensa in questo modo. Se invece i veri motivi sono quelli che avviene talvolta di leggere anche per la penna di pensosi intellettuali ed editorialisti, cioè discorsi del tipo: “ma insomma, poche storie, possediamo un patrimonio straordinario, mettiamolo una buona volta a frutto,
prendiamo esempio dal Louvre, dal Metropolitan…, ecc.” (da cui, per prima cosa, l’”autonomia speciale”), allora ricadiamo in quella deprimente carenza di consapevolezza storica cui accennavo poco sopra. Possibile, infatti, non rendersi conto della differenza che esiste fra la vicenda museale, articolata per aree geografico-culturali, di un territorio pluri-stratificato e del tutto particolare come l’Italia e quella di Paesi che hanno costruito i propri grandi musei sul collezionismo di antiche dinastie regnanti o delle classi dirigenti nazionali, in forme – esse sì – del tutto avulse dai rispettivi contesti?
Si dice ancora: nella situazione precedente la “riforma”, un direttore di Brera o degli Uffizi – se voleva dare o richiedere un’opera in prestito per una mostra – non poteva decidere di testa propria, ma doveva aspettare il parere del proprio Soprintendente, e ciò lo poneva in una condizione di inferiorità rispetto al suo collega del Louvre o del Prado. Ammesso e non concesso che le grandi istituzioni estere possano davvero muoversi in questo campo in modo del tutto autonomo, il discorso ha stavolta un suo fondamento: ma anzitutto riguarda solo in rari casi i musei archeologici, che organizzano mostre costituite – in gran parte o del tutto – da materiali provenienti dal territorio ex di riferimento, o comunque dal suolo patrio. Per i musei storico-artistici la cosa si pone indubbiamente in modo diverso: ma, considerazioni di prestigio a parte, dal punto di vista puramente funzionale chi nega che vi fosse – già prima di Franceschini – la necessità di una revisione dei rapporti fra Soprintendenze territoriali e grandi musei? Chi vieta, in altre parole, che si studino per i direttori dei musei forme di autonomia parziale, ma certo più ampia di prima, e che si arrivi per questa via a determinare una situazione intermedia fra la subalternità totale e la totale separatezza? Ecco dunque i distinguo che invocavo all’inizio, poiché – come spero si sia capito – vi sono serie e non capziose motivazioni per discriminare fra i musei archeologici e gli altri, e – nell’ambito di questi ultimi – fra diversi gradi di autocefalia. Ad esempio, sarebbe sciocco negare che alcune strutture espositive pubbliche, anche archeologiche, abbiano ormai il carattere di collezioni chiuse e avulse dal contesto (si vedano certe raccolte nobiliari di età rinascimentale e barocca confluite nello Stato), e possano quindi ricevere un ordinamento pienamente autonomo, sulla falsariga di enti la cui competenza si estende, per materia, all’intero Paese (vedi il Museo Pigorini, ecc.).
Che, nel quadro in esame, l’istituzione dei Poli museali sia stato l’anello più debole della “riforma” l’hanno riconosciuto con mezze frasi – quasi da subito – molti sostenitori del nuovo corso, così come lo ha riconosciuto, con parole più esplicite, lo stesso Franceschini 2 nel citato articolo/intervista sul “Giornale dell’Arte”, benché la redazione del periodico abbia pensato bene di dare al pezzo il seguente sottotitolo: “Poli Museali: li voglio rivedere e rafforzare”. Nel testo non si dice affatto questo, bensì: “E’ invece in crisi il sistema dei piccoli Poli Museali che, ammette Franceschini, va migliorato e ‘richiede un intervento, perché qualcosa non ha funzionato’” (l’ultima frase è di bocca del ministro).

Curioso poi che il giornalista parli di “piccoli Poli Museali”. In realtà hanno dimensione regionale: averli definiti pudicamente “piccoli” è forse un lapsus, dovuto al fatto che accorperebbero realtà considerate “piccole” (ora unificate in assenza di un qualsiasi principio informatore, bensì meccanicamente, seguendo un mero criterio territoriale
7)? O è stato piuttosto un modo, da parte dell’intervistatore, per prenderne le distanze – considerato che “sono in crisi” – in vista di un loro ripensamento? Probabile, e infatti la “revisione” dei Poli (ma, con molti altri, io avrei preferito una loro totale abolizione…) è prontamente arrivata nel giro di poche settimane. Purtroppo, tuttavia, è stata attuata in una forma tale da creare in questo settore del Ministero una situazione – se possibile – ancor più confusa di prima.
Per cominciare, questa famosa “revisione” è consistita praticamente – molto “all’italiana” – nel cambiare il nome di simili strutture, che nei DM del gennaio 2020 si intitolano ora “Direzioni regionali dei Musei” e sono in numero di 18. Ma è bene fare a questo punto un passo indietro, come nei romanzi d’appendice. Nel 2014 i Poli erano nati con l’intento dichiarato di creare un coordinamento fra tutte le realtà soprattutto museali – ma non solo – che esistono regione per regione, e che sono “altre” rispetto ai supermusei e ai parchi di cui sopra. Si puntava ad armonizzare, in tal modo, l’azione dello Stato con quella di altri soggetti: i Poli avrebbero dovuto, cioè, rivolgere la propria attenzione ai musei e agli altri nuclei di beni culturali di proprietà dei Comuni, delle Regioni, di privati, della Chiesa, ecc.
In realtà, nulla e nessuno poté impedire agli addetti ai lavori di cogliere immediatamente la vera sostanza, meramente burocratica e metodologicamente assai “povera”, dell’operazione. Poiché infatti, con l’istituzione delle Soprintendenze territoriali uniche, molti funzionari di grado dirigenziale, ex Soprintendenti, erano rimasti senza un incarico, ad essi venne attribuita la cura dei Poli (ora Direzioni regionali). Col risultato – ed è uno degli infiniti paradossi amministrativi e culturali prodotti dalla “riforma” – di assegnare senza eccezione alcuna a funzionari storici dell’arte le direzioni di uffici che invece dovrebbero essere “olistici” (come si usa dire oggi) quant’altri mai, poiché dovrebbero occuparsi di beni archeologici, storico-artistici, architettonici, ma, a ben vedere, anche etno-antropologici, ad esempio: e così via.
Taccio sull’assurdità e la gravità di tante scelte pratiche compiute – con piglio, ancora una volta, ciecamente burocratico – scindendo (com’era a questo punto inevitabile) realtà che erano sempre state e dovevano rimanere unite, e “dandole”, di volta in volta, ora al Polo, ora alla Soprintendenza, ecc. Così come taccio su come tutto questo abbia inciso e incida sull’attività e sulla salute mentale di funzionari e liberi professionisti (i collaboratori esterni delle Soprintendenze), tutto personale scientifico che non sa più dove si trovino i materiali che dovrebbe catalogare, studiare, pubblicare. Qui si ripetono identici i danni di cui ho già detto a proposito della scissione fra musei e Soprintendenze, per cui non sto a elencarli di nuovo. E taccio, infine, sulle immancabili sovrapposizioni di competenze fra due – ma talvolta tre o quattro – istituti diversi che, a ben vedere, si trovano così ad insistere sugli stessi comparti territoriali: le Soprintendenze, i Poli/Direzioni regionali e molto spesso il “grande museo autonomo” e/o il Parco di turno
8. Da cui infiniti disguidi, complicazioni, ritardi, perfino là dove non si manifestino forme di conflittualità personale (deplorevoli, ma la situazione le favorisce…) e si riesca invece ad instaurare un clima di leale collaborazione.
Il panorama finora descritto apparirà al lettore già abbastanza deprimente. E tuttavia vi si aggiungono astrusità come l’attribuzione della “valorizzazione”
9 ai grandi musei e ai Poli/Direzioni regionali, della tutela alle Soprintendenze (così recitano, fin dal 2014, i decreti ministeriali). Ma a parte l’errore fatale di aver scisso i due momenti, come potranno le Soprintendenze, d’ora in poi, esercitare realmente la tutela, se le scarse risorse disponibili vengono costantemente drenate verso poche grandi emergenze come Pompei (politicamente redditizie, perché costantemente sotto i riflettori dei media)?
Per tornare a quel che dicevo all’inizio, prima di unirci ai cori di gioia e di cantare “Evviva, riparte l’autonomia!” contiamo dunque fino a dieci e poi non cantiamo affatto, se prima non abbiamo capito bene – per ciascuna situazione – di quale autonomia si tratti, con quali modalità e per fare che cosa, appunto. Nell’articolo-intervista al “Giornale dell’Arte” più volte richiamato, Franceschini 2 parla dei tre istituti “declassati” dal suo predecessore (il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, il Parco archeologico dell’Appia Antica e la Galleria dell’Accademia di Firenze), e dice che tale “retrocessione” – così viene definita l’abolizione del regime di “autonomia speciale” – sarebbe avvenuta perché si dovevano recuperare “dirigenti di seconda fascia da utilizzare in altre funzioni del Ministero”. Se la notizia fosse vera si sarebbe trattato, retrospettivamente, di un’altra manifestazione di quella strumentalità burocratica di bassa lega che poco sopra segnalavo a proposito della dirigenza dei Poli e delle scelte operate a suo tempo da Franceschini 1. Strumentalità che in questo caso andrebbe ascritta a carico di Bonisoli: ma, evidentemente, in questa materia c’è davvero una “continuità dello Stato” che si manifesta proprio là dove meno vorremmo trovarla…
Però, come si è mosso ora Franceschini 2, coinvolgendo nella sua strategia l’intero governo
10? Ripristinando, puramente e semplicemente, l’autonomia tolta dal predecessore ai tre uffici di cui sopra. Ora – per parlare solo di Roma, dove vivo e i cui problemi conosco un po’ meglio – non ho sottoscritto, per quel che può valere, gli appelli lanciati nella fase Bonisoli per “salvare Villa Giulia”, né ho condiviso le ondate di emozione vòlte a “salvare l’Appia”, e così via. A mio avviso, infatti, in un quadro normativo (ed economico!) decisamente sgangherato come quello che continua a caratterizzare la nostra amministrazione della tutela non “si salva” realmente nessuno, autonomo o meno: e, per il momento, sembra allora preferibile adottare un sistema in cui il direttore goda di un determinato spazio di decisione anche ampio, tutto da definire, ma pensato pur sempre all’interno della struttura territoriale (vedi sopra).
Per quel che riguarda in modo più specifico l’Appia, la cui sorte dovrebbe stare a cuore a tutti romani e no, la preoccupazione primaria è che non vada disperso il prezioso patrimonio di ricerca, tutela, restauro, demanializzazione, valorizzazione (nel senso giusto del termine!), didattica e musealizzazione che nei tanti anni di direzione di Rita Paris ha fatto di quest’area una trincea avanzata dell’archeologia romana. In ogni caso, un’Appia separata e staccata dal resto del suburbio e dalla Roma entro le Mura Aureliane è una grave incongruenza, purtroppo perpetuata dalle attuali misure adottate dal Ministero.
Tutta la situazione romana andrebbe invece ripensata, e nella direzione esattamente opposta. Sono convinto infatti, come molti, che l’istituzione del cosiddetto Parco Archeologico del Colosseo sia stato un altro sbaglio esiziale, e che il suo mancato collegamento all’Appia ribadisca di nuovo la “non volontà” (ma temo che, in questo caso, alla base del deficit di coraggio politico stia un’assenza di consapevolezza culturale e storica!) di creare quel cuneo verde e monumentale, esteso dal suburbio sud-orientale fino al cuore della città, che sognava Antonio Cederna. La cosa migliore – ma ne siamo lontanissimi – sarebbe far cadere le artificiali barriere odierne e ricostituire un’unità di tutela e di gestione priva di distinzioni fra la Roma entro e fuori le Mura, come nel disegno di legge depositato in Parlamento, nel 2017, dall’allora senatore Walter Tocci
11.
La parola “autonomia”, nel campo dell’eredità storica, evoca anche altre cose: c’è, ad esempio, chi vorrebbe che i regimi di “autonomia speciale” venissero non già aboliti, ma anzi estesi a tutti i musei, parchi e Soprintendenze d’Italia. Personalmente sono contrarissimo a scelte del genere, perché rispondenti ad un orientamento manageriale e produttivistico che è proprio il contrario di ciò che sarebbe auspicabile. Si intuisce facilmente, infatti, come qualsiasi ufficio che per le proprie strategie di ricerca, conservazione, restauro, divulgazione e quant’altro possa sostanzialmente contare solo sugli incassi derivanti dalla bigliettazione
12 sarà indotto a cercare affannosamente tutti i modi di “fare cassa”, da cui – per esempio – le iniziative di “valorizzazione” più strampalate, le mostre meno scientificamente motivate, ma tali da attirare visitatori… e così via.
Da questo punto di vista, la presente riflessione non ha intenti di denuncia e quindi non comporta alcun elenco di esempi concreti (altri l’hanno già redatto, ma è una fatica di Sisifo, perché è un elenco che si allunga continuamente!). In ogni caso, bastano forse le poche frasi che precedono per comprendere come un’autonomia estesa indiscriminatamente a tutti andrebbe nella direzione diametralmente contraria a quegli intenti che dovrebbero essere propri di qualsiasi organismo culturale pubblico (intenti, cioè, di diffusione della conoscenza, del sapere critico, dello spirito di cittadinanza). Fornirebbe, inoltre, un comodo alibi a quello Stato che sarebbe tenuto – viceversa – ad assumere realmente la salvaguardia e la promozione dei beni culturali come una voce di spesa prioritaria del proprio bilancio, obiettivo tante volte sbandierato e mai attuato.
L’autonomia generalizzata lascerebbe invece gli attuali uffici periferici “altri” – quelli che non possono contare su una bigliettazione nemmeno lontanamente paragonabile a quella del Colosseo – “nudi” di fronte alle continue esigenze che l’attività di tutela in teoria richiede, se abbiamo presente l’entità e la complessità del patrimonio che dovrebbe venir tutelato. Marceremmo quindi scientemente (ed è forse ciò che in realtà si vuole) verso il “si salvi chi può”, col risultato – avviene già, ma avverrebbe in misura ancor maggiore – di far spiccare da uno sfondo buio e indistinto, sotto i riflettori dell’informazione e all’onore del mondo e della politica, poche grandi realtà nazionali (vedi sopra), abbandonando invece al proprio destino quel famoso tessuto diffuso, quel contesto pluristratificato prezioso e unico che viene, a parole, esaltato come il vanto e la specificità del Paese. O in alternativa (o in aggiunta?), col risultato di giustificare la strategia che punta ad sempre più ampia privatizzazione: essa infatti, a questo punto, verrebbe estesa non alla sola sfera della “valorizzazione”, ma all’ambito della stessa gestione diretta della tutela. E anche questo sta in parte già accadendo: ma qui il discorso, oltre a farsi sempre più inquietante, si amplia in misura tale da dover essere rinviato ad altre occasioni.