Stranamente – o addirittura paradossalmente – non esiste la voce “Verità” nel Dizionario Filosofico del Voltaire. La troviamo invece nei Quesiti sull’Enciclopedia (1770-74). Qui l’illuminista riprende un passo del Vangelo: “E allora Pilato gli disse: – Ma, dunque, tu sei re? E Gesù rispose: – Tu lo dici: io sono re; sono nato per questo e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce. – E Pilato gli disse: – Che cos’è la verità? – E detto questo, uscì” (Giovanni, XVIII, 37).
È difficile immaginare perché Pilato abbia abbandonato Cristo dopo avergli rivolto una domanda così fondamentale, quasi volesse fuggire dalla risposta per paura di trovarsi faccia a faccia con una rivelazione intollerabile. Si può anche supporre che la domanda fosse soltanto retorica o una specie di interrogazione-esclamazione scettica e rassegnata.
Comunque sia, non si può che condividere il rammarico (ancorché venato d’ironia) di Voltaire per la scarsa curiosità di Pilato: “Per il genere umano è ben triste che Pilato se ne sia andato senz’aspettare la risposta: se non lo avesse fatto, sapremmo che cos’è la verità”.
Sciascia riprende a sua volta l’enigma di Pilato, ma senza alcun riferimento alle osservazioni di Voltaire. Gli pare innanzitutto che “l’eterna domanda” sul conto della verità non possa trovare altra risposta che una tautologia (la verità è ciò che è, che corrisponde poi all’autodefinizione di Dio: “Io sono colui che sono”). E per di più legge il brano di Giovanni (annotando di non aver trovato traccia dell’episodio in Matteo, Marco e Luca) non come un sottrarsi di Pilato (per viltà o cautela diplomatica: per pilatismo, insomma) al disvelamento, ma come un rifiuto di rispondere da parte di Cristo.
Da uomo di potere (cioè di menzogna) Pilato domanda una definizione positiva e definitiva, da catalogare, da sussumere in nozione. Ma sul conto della verità non v’è risposta che non sia già insita nella domanda stessa, ossia non v’è enunciato esplicativo che vada oltre il puro e semplice principio di identità (il che forse spiega l’assenza della voce verità dal dizionario volteriano, essendo la verità in sé indefinibile).
Tuttavia Sciascia non si sottrae a sua volta a un tentativo di soluzione, lasciandosi affascinare dall’autenticità del racconto di Giovanni, “il più letterato degli evangelisti”, che gli sembra essere il frutto di una testimonianza oculare, di una compresenza al fatto.
E la “conclusione” (apertissima e inconcludente) a cui giunge allora Sciascia è che “alla domanda di Pilato – << Che cosa è la verità >> – si sarebbe tentati di rispondere che è la letteratura”.
Risposta – se vogliamo – evangelica. Ma soprattutto pirandelliana (o almeno apparentemente pirandelliana, giacché nulla è più lontano da Sciascia del così è se vi pare). Nel senso, dunque, di quanto si dice alla voce “Verità” dell’Alfabeto pirandelliano, laddove Sciascia esamina il passaggio dal piano narrativo de La verità a quello teatrale de Il berretto a sonagli: “dalla novella e dalla commedia viene fuori che ci sono delle verità – frantumi, come di specchio, di una ignota verità – che, una volta scoperte o incautamente confessate, possono avere echi imprevedibili e molteplici, effetti liberatori o micidiali: e sono le verità che rovesciano o disgregano le apparenze, le ‘menzogne convenzionali’ ”.
Ecco dunque il compito della letteratura: disgregare quelle “menzogne convenzionali della nostra civiltà” di cui parla un celebre libro di Max Nordau.
La letteratura, per Sciascia, è invece verità nel senso che il compito dello scrittore è la parresia. Etimologicamente, parresia significa “dire tutto”: definizione che ci introduce subito a quella formula forense che impone di dire “la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”.
Il tutto che occorre dire non ha però nulla a che fare con un’abbondanza dell’enunciato: piuttosto che chiacchiera, la parresia è silenzio; piuttosto che eloquenza, un uso parco e preciso della parola.
Ma ciò che ci consente di individuare il carattere veritiero di un’opinione è soprattutto il rischio a cui si espone chi la sostiene. Scrive infatti Michel Foucault: “Se c’è una prova della sincerità del parresiastes, essa sta nel suo coraggio. Il fatto che un parlante dica qualcosa di pericoloso – qualcosa di differente da ciò che la maggioranza crede – è una forte indicazione del fatto che egli sia un parresiastes”.
Ora, la parresia non ha altra funzione che criticare e contrastare il potere, cioè costituire un limite al suo esercizio incontrollato. Pertanto la condizione di colui che dice il vero è una totale estraneità nei confronti del potere, che necessariamente si traduce in avversità, in opposizione, ogni qual volta il silenzio viene rotto: chi è assertore di verità non può detenere alcuna forza che non sia la parola, ed anzi ogni suo pronunciamento è un atto contro il potere. Un atto libero e al tempo stesso doveroso, imprescindibile. Questa impotenza della verità (che spiega l’indifferenza e l’indisponibilità all’ascolto da parte di Pilato) si trova anche nella definizione dell’intellettuale proposta da Edward W. Said: “un esiliato e un emarginato, un dilettante, oltre che l’autore di un linguaggio che si propone di dire la verità al potere”.
(Marcello Benfante, Leonardo Sciascia – Appunti su uno scrittore eretico, ed. Gaffi, Roma, 2009, cap. 13 pp. 119-123)